“Non c’è dubbio che ci sia una crisi della democrazia rappresentativa e del sistema parlamentare. Bisogna aggiungere inoltre che diminuire il numero complessivo dei parlamentari è possibile, si può. Ma in questo caso non ci troviamo di fronte a una riforma ma a uno spot”.
Ha le idee chiare Pasquale Viespoli in merito al referendum sul taglio dei parlamentari che in queste settimane ha infiammato il dibattito pubblico, specialmente a destra. L’ex sottosegretario è tra chi ha deciso apertamente di schierarsi per il No e parteciperà, domani alle 10 alle Fabbriche Riunite di Benevento, alla manifestazione pubblica “Dalla lotta di casta al potere delle oligarchie”, insieme alle associazioni tra cui Mezzogiorno Nazionale, il comitato “Di Centrodestra e liberi di votare No” e i comitati provinciali e regionali per il “no” alla riforma.
Quali sono le ragioni alla base della sua scelta di votare No al referendum?
Si tratta di motivazioni che entrano nel merito della riforma e vengono rafforzate da considerazioni di carattere politico che non si possono ignorare. Riflettendo sulla riforma, questa non parte dall’idea di efficientare le istituzioni e migliorare la qualità della rappresentanza e l’operatività del parlamento. Al contrario, persegue l’obiettivo di delegittimare i rappresentanti parlamentari e le aule. Insomma, si tratta di una riforma che non viene promossa in nome della politica ma dell’antipolitica e che finirà, partita con l’intenzione di colpire la casta, di rafforzare il potere delle segreterie di partito e delle lobbies che gravitano attorno alle oligarchie partitocratiche. Invece di avvicinare il cittadino alle istituzioni, l’effetto sarà quello di allontanarlo ancora di più.
Eppure il consenso alla riforma, anche in Parlamento, è stato trasversale…
Tutti hanno assecondato questo disegno perché, a sua volta, assecondava un sentimento, uno stato d’animo, una valutazione popolare diffusa, viscerale e maggioritaria contro i politici. E alla fine si sono intrecciati destra e sinistra, grillini e leghisti, meloniani e berlusconiani.
C’è chi ritiene che, nel corso degli anni, la rappresentanza sia addirittura aumentata e che, dunque, i tagli ai parlamentari non incideranno in tal senso.
Chi lo dice, affermando che dal ’46 a oggi con l’istituzione delle Regioni e il voto per l’europarlamento siano aumentati i livelli di rappresentanza e che perciò tagliare i parlamentari non sarà un dramma in questo senso, compie una fuga in avanti che diventa incomprensibile alla luce del fatto che mancano norme di raccordo e una visione d’insieme, nella riforma, che ridefiniscano lo scenario alla luce dei fatti nuovi.
Significa affermare, dunque, che andavano affrontati alcuni temi decisivi che invece sono stati ignorati. A partire dal regionalismo, da una seria riflessione a cinquant’anni di distanza dall’istituzione. Se passasse il Sì, si arriverebbe al paradosso per cui, in sede di elezione del presidente della Repubblica, momento fondamentale nella vita democratica del Paese, i delegati espressi dai consigli regionali, eletti di secondo grado, avrebbero un peso specifico di molto superiore a quello che hanno avuto sinora e potranno pesare molto più dei parlamentari che invece sono eletti direttamente dai cittadini. Sarebbe un problema di sovranità non da poco. E poi c’è il tema del bicameralismo che non viene superato, anzi.
Che accadrà al Parlamento se passasse il Sì?
Camera e Senato saranno oggetto di un processo di omogeneizzazione, a partire dai collegi e dalle circoscrizioni e per finire alla questione degli elettorati attivi e passivi. In più, con i tagli, un ristretto numero di senatori rischia di diventare così determinante da tenere in scacco tutto il Parlamento e, perciò, il pericolo sarebbe quello di consegnare in mano loro la vita politica e istituzionale del Paese. Ciò dimostra, ancora una volta, come non abbia senso un’operazione che non contempli altro che un taglio del numero dei parlamentari: è uno spot che nulla ha a che vedere con la necessità di recuperare il rapporto tra cittadino e istituzioni, di riaffermare la centralità della sovranità popolare. Con la scusa di tagliare il costo della politica faranno solo crescere il costo delle campagne elettorali.
In che senso?
I territori avranno meno rappresentanza, i collegi si allargheranno. Sarà necessario puntare forte sulla mediaticità e investire denaro, tanto, in una campagna elettorale che per forza di cose diventerà molto più dispendiosa. Ciò comporterà che gli elementi che caratterizzanti dei prossimi parlamentari saranno soldi e mediaticità. In pratica, con i partiti che ormai non esistono più, torneremo allo scenario delle democrazie liberali dell’800, all’epoca del censo, definito dalla ricchezza, dai patrimoni personali e familiari. Altro che prospettiva, altro che futuro: siamo alla retrospettiva, al ritorno a un passato che sembrava ormai dimenticato.
C’è ancora un altro paradosso da sottolineare: sul fronte del Sì, con Salvini, c’è una forza come la Lega che fa della territorialità un elemento di identità. Inoltre c’è la destra che, a sua volta, fa del radicamento un fattore decisivo della sua azione politica. Pare un controsenso che proprio loro favoriscano un meccanismo e un sistema che esprime un’idea diversa e altra, rispetto a quello del radicamento e del primato del territorio.
Passando dalla critica nel merito delle riforma ai casi della politica, quali ragioni la spingono verso il No?
La scelta è determinata dalle constatazioni nel merito della riforma. Che vengono rafforzate dalle circostanze politiche. Siamo davanti a un patto di governo che si regge su uno scambio: il Pd, dopo averla bocciata tre volte, ha dato il via libera alla riforma in cambio della nuova legge elettorale sul proporzionale che il M5s si impegna a far passare. Ma, come giustamente fanno notare acuti osservatori anche da sinistra, non è possibile, politicamente né culturalmente, accettare né avallare un vero e proprio scambio che riguardi direttamente la Costituzione, che è materia che di tutti e non solo di una maggioranza parlamentare, né leggi di rango costituzionale, come quella che fissa le regole del gioco elettorale a cui sono interessati e dovranno attenersi tutti, in cambio della sopravvivenza del governo.
Stiamo parlando di due fattori e due temi fondanti e fondativi del Conte bis. E credo che l’opposizione, anziché rivendicare coerenza non so rispetto a che, avrebbe dovuto intestarsi un’importante e seria battaglia politica e culturale di profilo istituzionale e costituzionale che avrebbe ampliato e ancor più motivato la richiesta di un ritorno alla sovranità popolare per l’alternativa di governo.
Invece si è scelta la via della subalternità culturale di fronte alla volontà generale; si torna alla politica che non guida i processi ma li subisce e li asseconda, determinando una condizione paradossale per cui la stessa politica pensa di salvarsi cavalcando la tigre dell’antipolitica. Il paradosso del centrodestra è che vota Sì a una riforma che non c’è e contribuisce a rafforzare il governo che c’è.
Caro Pasquale come sempre hai dimostrato di avere una marcia in più. Peccato che lo scenario politica a destra non comprenda la qualità. Non dobbiamo assecondare questa triste realtà. Forse è giunto il momento di rientrare in campo e lottare per affermare le tue e nostre idee. Sono con te