«né scolorò le stelle umana cura»
Così nel Bruto minore (composto nel 1821) Giacomo Leopardi descrive, lapidariamente e con grande forza lirica, il divorzio tra uomo e mondo, l’indifferenza della natura (o di un Dio) di fronte alle umane vicissitudini. Bruto, che aveva partecipato alla congiura contro Cesare, sconfitto a Filippi, decide di farla finita. Ma il suo gesto incontra solo il silenzio delle stelle che seguono imperterrite, senza impallidire, il loro corso. La rivolta dell’uomo si consuma in una siderale solitudine. Il filosofo e romanziere esistenzialista Albert Camus riprenderà il tema dell’indifferenza del mondo e della rivolta in vari suoi scritti come Il rovescio e il diritto, Nozze, Il mito di Sisifo, e in romanzi come Lo straniero. In alcune delle Operette morali e in vari Canti successivi Leopardi si soffermerà ancora sull’indifferenza della natura.
Il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (1829-1830) può essere considerato un grandioso e splendido commento lirico a questo verso (il 105°), che invece si staglia scultoreo e si distacca improvvisamente da una composizione dallo stile alquanto ampolloso. Perché sorprendercene?
Scrive in proposito il poeta e critico letterario Daniele Giancane in Che cos’è la poesia? (Tabula fati, 2020):
«Ho sempre pensato che, anche nella grande poesia, non tutto è straordinario e “miracoloso”… Il resto della poesia è architettura, preparazione al “miracolo” di un verso, ed anche “mestiere”… [ma] non ogni scritto di un grande poeta è grande poesia, egli la raggiunge in pochi momenti: Leopardi è immenso in dieci dodici poesie, poi naturalmente è sempre formidabile, profondo, stupefacente, ma non “miracoloso”».
E sulla stessa linea è il filosofo Ortega y Gasset che nelle sue Meditazioni del Chisciotte osserva:
«Se smontiamo la complicata impalcatura concettuale di allegoria filosofica e teologica che forma l’architettura della Divina Commedia, ci restano tra le mani, sfolgoranti come pietre preziose, poche rapide immagini, a volte imprigionate nell’angusto spazio di un endecasillabo, per le quali rinunceremmo al resto del poema.»