Mario Corso al Genoa nel 1973-1974, ecco il dettaglio che i tg regolarmente ignorano in queste ore. Eppure è serie A anche quella, seppure di bassa classifica. E pensare che Francesco Guccini commuove perfino i giornalisti quando canta di “gente c’è che è di casa in serie B…”.
Corso al Genoa sa di viale del tramonto, quindi perché ricordarlo, anche se il Genoa di allora ha 9 scudetti in curriculum, uno stadio da 42.000 posti che non si riempie solo contro la Juventus, il Milan o l’Inter.
Il gol di testa ai nerazzurri
C’è poi una curiosità: con la maglia rossoblù, Corso segna, proprio all’Inter che ha Vieri in porta, la sua seconda rete di testa in carriera. C’è poi qualcosa di più importante: al Genoa offre anche due gambe, nel senso di altrettante fratture. Con la seconda delle quali, nel 1975, deve chiudere la carriera.
Più che per la sua classe mai appannata, è per la dedizione – di cui gli interisti di allora si stupiscono – che Corso entra nella Hall of Fame del Genoa, perché non solo smette di cercare l’ombra dei “distinti” e della “tribuna” nei giorni di sole primaverile, sfoderando l’umiltà che Helenio Herrera non è riuscito a imporgli. Al Genoa, Corso si schiera perfino in area di rigore (la sua), situazione comune per chi non vuole retrocedere, per chi farcela offre la stessa gioia che, altrove, dà vincere lo scudetto.
Non l’ho letto sui giornali, non l’ho visto in tv: c’ero a vedere Corso al Genoa come c’era Giacomo Airoldi all’Inter. C’è una foto di squadra del 1973-74, quindi in rossoblù, mostra Corso accanto a Roberto Rosato, a Sidio Corradi, a Luigi Simoni, che come lui diverrà allenatore, passerà dall’Inter per morire di recente. Che cosa separa, oltre il tempo, quel calcio dal calcio di oggi? Stadi senza copertura? Maglie solo col numero e senza patacche? Arbitri singoli e non ancora a manipoli? Tutto questo. Ma soprattutto la tecnica.
I telecronisti odierni poi corrispondono ai calciatori odierni, per lo più podisti. Chi ha sentito la voce di Niccolò Carosio, Roberto Bortoluzzi, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Nando Martellini oggi toglie il sonoro ai televisori, se non alle radio. La mitologia di Eupalla, come la chiamava Gianni Brera, si nutre di statistiche da leggere nei tempi morti di prologo e intervallo; attinge a un lessico saccente (“ripartenza” per contropiede, “murato” per respinto, “uno-contro-uno” per duello in dribbling…); pretende calciatori che cantino inni di paesi che non sono i loro; che mettano sopra-magliette o sotto-magliette contro razzismo, contro epidemia, anziché palloni nelle rete avversaria; che smettano di giocare se qualcuno si permette di fischiarli…
Quando giocava da fermo ed in tutta la partita si muoveva 200 metri!