Il furto della Primavera
Fra le tante cose di cui il Coronavirus mi ha privato ce n’è una a cui non avrei fatto molto caso sino a qualche anno fa: la Primavera. È vero, la primavera astronomica si protrae sino al 21 giugno, ma è la primavera precoce, la primavera adolescente quella di cui avverto la mancanza. La primavera di un “cielo tredicenne di marzo, tutto ubbìe e presentimenti” (Federigo Tozzi), la primavera di certe mattine d’aprile in cui sentivo verzicare il risveglio della natura nella pineta di Viareggio, di certi giorni in cui conoscevo la rara felicità di pranzare in giardino, baciato dal sole già caldo del meriggio. La primavera dei piedi nudi nell’acqua ancora limpida, delle corse sulla spiaggia deserta col mio cane, con un legno da lanciare, trovato senza difficoltà fra i detriti del lavarone non ancora rimossi dai bagnini. Tutto questo, e tanto altro ancora – le corse in bicicletta, nella pista ciclabile ancora deserta, le passeggiate a passo svelto nel verde, il piacere di riaprire la casa della villeggiatura, quando gli altri ancora lavorano – è rimandato a un altr’anno.
Il bello è che fino ai cinquant’anni e oltre non ho mai amato la retorica della primavera. Un po’ per una fastidiosa allergia che, con il suo corollario di istaminici e cortisonici, mi ha impedito di affrontare nel migliore dei modi la stagione degli amori, degli esami, delle grandi manovre. Un po’ perché in una città come Firenze la primavera coincideva, oltre che con i primi assaggi di un caldo a tratti afoso, con l’invasione di flussi turistici che facevano sentire sempre più “stranieri in patria” noi residenti e con l’irrompere di ragazzini scatenati su motorini smarmittati. Per molto tempo ho fatto mio un misantropico aforisma di Thomas Mann: “La primavera è volgare”.
Da quando il pensionamento mi ha consentito di trasferirmi in pianta quasi stabile ad aprile nel terratetto viareggino, un tempo casa della servitù, che è quanto resta delle fortune della mia famiglia paterna, il mio giudizio sulla primavera è cambiato e ho cominciato a comprendere l’intimo significato di un’espressione che mi aveva lasciato perplesso: “avere un certo numero primavere”. Perché primavere, e non autunni, stagione da me prediletta, anche per la mancanza di complicazioni allergiche?
Ora finalmente ho capito che la primavera non è un semplice fatto astronomico, ma una categoria dello spirito, che vedere rinascere la natura è un momento irripetibile nel ciclo delle stagioni. Il Coronavirus, costringendomi a un lungo confino nella casa di città, me ne ha rubata una, di quelle, poche o tante, che mi rimangono da vivere. Poca cosa, certo, rispetto a quello che ha rubato ad altri. Un giovane, convinto come lo siamo stati tutti che la vita sia eterna, forse non ci farebbe nemmeno caso. Ma per chi ha compiuto, tra l’altro proprio di maggio, 67 anni, una primavera in meno non è una perdita da poco.
De Gregori e l’Ama. Libri abbandonati o libri salvati?
L’Ama, l’azienda che si occupa senza molto successo della nettezza urbana nella capitale, per invitare i residenti a una maggiore disciplina nel conferimento dei rifiuti, ha fatto affiggere un manifesto in cui viene raffigurato, come esempio di degrado, un cassonetto davanti al quale è stato deposto un cumulo di libri. Il cantautore De Gregori ha protestato, facendo presente che presentare i libri come un rifiuto ingombrante da riciclare è diseducativo. Perché non un frigorifero rotto o un televisore?
Protesta sacrosanta, eppure in parte sbagliata.
È una triste realtà che il valore dei libri usati e in certi casi persino antichi sia crollato, non solo in Italia, ma un po’ dovunque (nel 2016 mi capitò di comprare a prezzo di listino in una libreria antiquaria di Rouen a meno di dieci franchi una raccolta ottocentesca di scritti del grande Rivarol, con prefazione dell’altrettanto grande Sainte-Beuve). I motivi sono diversi: gli spazi sempre più angusti delle case moderne, il fatto che i libri richiedono cura e “fanno polvere”, la disaffezione per la lettura, la possibilità di consultare a costo zero su internet migliaia di volumi d’epoca, oltre alle principali enciclopedie. Più di trent’anni fa, mi capitò di dover liquidare parte della vastissima biblioteca di una zia paterna. Salvai per me le opere di maggior valore affettivo o interesse culturale, ne regalai altre agli amici, donai alla parrocchia le opere meramente devozionali, dopo averle contrassegnate con un ex libris; il resto dovetti venderlo. Vi riuscii con relativa facilità e devo dire che a volte superiori per correttezza ai blasonati librai antiquari erano i bouquinistes. Non dimenticherò mai l’espressione che usava il titolare di una bancarella sotto i portici di piazza della Repubblica a Firenze quando gli portavo qualche volume: “Grazie, per me è pane.” Era un popolano alto, dinoccolato, un po’ rozzo; aveva sì e no il diploma di terza media, ma aveva il senso del rispetto.
Oggi bouquinistes e brocantiers paiono farti un piacere a comprare qualcosa e anche le biblioteche pubbliche accettano di mal garbo donazioni anche di fondi pregevoli. Manca lo spazio nella biblioteca, o magari, da parte del bibliotecario, la voglia di schedare le nuove accessioni. È fatale che in occasione di traslochi, di eredità, di trasferimenti di anziani in case di riposo, i libri finiscano in un cassonetto.
Per chi ha un cuore, però, i libri sono anche dei liberi, parola che in latino significa figli, e abbandonare al macero i propri figli è una scelta non facile. Per questo sono in molti a lasciare i volumi non nel cassonetto, ma davanti, con la stessa speranza con cui il mitologico pastore incaricato di uccidere un bambino lo abbandonava, o lo deponeva in una cesta nell’acqua. Quello che nel cassonetto dell’Aima viene presentato come un gesto incivile è invece una sublime manifestazione di pietas.
Abbiamo così, al posto dei liberi salvati dalle acque, i libri salvati dal fuoco. A me è capitato, qualche mese fa – in epoca pre-pandemia, in cui non ci si peritava di raccogliere quanto si trovava per terra – la ventura d’imbattermi nei ventiquattro volumi dell’Enciclopedia Britannica. Il segno che chi li aveva lasciati sperava che qualcuno li adottasse era il fatto che erano stati ordinatamente deposti, rispettando l’ordine alfabetico, nei robusti sacchi che si usano per fare la spesa al supermercato. Facendo tre viaggi (per fortuna lo spazio dal cassonetto a casa mia è breve) li ho raccolti tutti, ho dato loro il posto d’onore che si meritano nella biblioteca dell’ingresso, e li sto trattando come figli adottivi, a costo di rubare spazio ai libri miei. Vorrei che chi li ha abbandonati li leggesse, e che sapesse che non considero barbaro lui, ma chi sta distruggendo a colpi di byte la civiltà del libro.
errata corrige: mi leggesse, non li leggesse!
Caro Nistri , quanto esponi è il mio problema ; nella mia vita di studioso -con grandi sacrifici- ho collazionato oltre sei mila libri,suddivisi per discipline in cui la Storia fa la parte del leone , perchè è la mia specializzazione universitaria . Speravo che alla mia morte potessi lasciare quanto ho custodito amorosamente a qualche associazione culturale a noi “idealmente ” vicina : speranza vana ! Di anni ne ho 75 ,quindi ” hora ruit” perciò , piuttosto che vederli andare al macero preferirei che bruciassero in un rogo solstiziale .
Caro Zolia,
quando ci renderemo conto di come si è imbarbarita la società per colpa di un uso incontrollato dell’informatica sarà purtroppo tardi. Comunque ti auguro di poter vivere ancora a lungo, alla faccia dell’Inps che vorrebbe morti tutti i pensionati per distribuire redditi di cittadinanza agli immigrati, e di poterti godere quanto più possibile i tuoi libri