Salvini abbandonerà la “pesca delle occasioni”?
Continua nei sondaggi il lento ma, all’apparenza, inesorabile stillicidio di voti della Lega, e con esso le voci di una prima fronda all’interno del partito. Non si tratterebbe più di un dissenso leale e contenuto, come quello del cauto Giancarlo Giorgetti, che ricorda un po’, si parva licet, il contrasto fra l’impulsivo Rolando e il prudente Oliviero nella celebre Chanson de geste. Qui ci si potrebbe trovare dinanzi a qualcosa di più serio e al tempo stesso di più banale: la rivolta dei soliti gregari “locupletati di incarichi e di prebende”, per usare l’espressione di un altro politico tradito, che in un frangente critico come l’attuale prendono le distanze da colui che li aveva beneficiati. Non si tratterebbe insomma di un Rolando o di un Oliviero, ma di tanti Gano di Magonza in sedicesimo.
Non sono mai stato leghista e anzi di fronte alla prima Lega secessionista e anti-italiana presi quando facevo politica posizioni molto ferme. In seguito, dopo la disgregazione di Alleanza Nazionale, la guardai con occhio diverso, pur dovendo constatare che nella mia regione, la Toscana, non riusciva a consolidare una classe politica credibile. Salvini mi rimase simpatico quando assistetti casualmente a un suo comizio a Viareggio, davanti al Margherita, un prestigioso caffè concerto ora decaduto e in parte trasformato in libreria. Il neosegretario della Lega fu assalito da un gruppo di estremisti dei centri sociali, che lo costrinsero quasi a scappare. Ero seduto con la mia futura moglie e col fedele bassotto nel dehors del bar Balena, dove preparavano il miglior punch alla livornese di Viareggio, e mi vergognai un po’ di non poter fare nulla per aiutarlo. Allora mi ricordai che sempre davanti alle architetture moresche di quel caffè concerto fu aggredito nel 1915 un socialista convertitosi all’interventismo di nome Filippo Corridoni, che teneva anche lui un comizio per l’entrata in guerra dell’Italia, e che fra i giovani che lo difendevano c’era un pittore di nome Lorenzo Viani, ex anarchico tornato alla Patria, tanto per parafrasare il titolo del libro con cui avrebbe vinto il Premio Viareggio. Fu allora che solidarizzai con Salvini: in fondo anche lui stava tornando alla Patria, non dall’anarchismo, ma dal secessionismo Lumbard, risollevando le sorti di un partito che il familismo del suo fondatore aveva portato a percentuali da prefisso telefonico e a una bancarotta da Leeman Brothers.
Da allora Salvini non sbagliò un colpo, fino alle vicende fin troppo note dell’agosto dello scorso anno e anche in seguito, fino alle elezioni in Emilia-Romagna, conservò intatto il suo carisma. Con pochi slogan, che interpretavano il sentire comune di larga parte degli italiani, ha conquistato un suffragio senza precedenti per un partito che non fa mistero della sua netta collocazione a destra. Purtroppo, però, con gli slogan si possono vincere le elezioni, ma non si può selezionare una classe dirigente ed elaborare una cultura di governo. Non a caso i nodi per la Lega sono venuti al pettine subito dopo il massimo successo elettorale, al momento di assumere nitide prese di posizione di fronte all’Euro e al rapporto con gli altri partiti sovranisti. Poi, è successo quello che è successo e paradossalmente le difficoltà di Salvini si sono accentuate proprio mentre un evento di portata planetaria come la pandemia mostrava i pericoli insiti nel modello mondialista e in particolare in una globalizzazione dei mercati aperta alla Cina.
Di fronte al progredire del virus Salvini ha avuto un atteggiamento altalenante fra inviti alla chiusura o all’apertura, volto più alla difesa di singole categorie, pur rispettabili, che a una coerente denuncia della politica del governo, la cui colpa principale è in realtà l’aver sottovalutato la pandemia, nonostante le informazioni ricevute, per timore di sollevare un’ondata sinofoba nel paese. Di essersi preoccupato più di evitare che qualche imbecille tirasse sassi contro le vetrine dei ristoranti cinesi che di fornire informazioni realistiche agli italiani. Salvo poi di punto in bianco mettere in cantina la Costituzione “più bella del mondo” rivendicando i pieni poteri.
Oggi la situazione è molto delicata, perché i casi sono due. O la pandemia, com’è auspicabile, regredirà, e questo piaccia o meno gioverà a chi ha gestito l’emergenza, o proseguirà il suo corso e in questo caso un ulteriore incremento del controllo sociale rischia fatalmente di ingessare a favore di chi si trova al governo gli equilibri politici.
Non è una prospettiva allegra, per la Lega e più in generale per un centrodestra che più che mai ha bisogno di elaborare una seria analisi politica, economica e oserei dire filosofica di quanto è accaduto. La “pesca delle occasioni”, quella rincorsa giorno per giorno dei facili consensi che Beppe Niccolai rinfacciava a Giorgio Almirante, poteva avere (relativamente) un senso per un movimento che si faceva un punto d’onore di sopravvivere come testimonianza ideale, ma non per quello che rimane ancora negli ultimi sondaggi il partito politico più amato dagli italiani.
Addirittura i sondaggi parlano di un recupero dei consensi per Forza Italia. Boh.