Col pretesto del Coronavirus ci imporranno dopo la neo-lingua la neo-vita (e la neo-morte)?
Ho già manifestato il mio scetticismo nei confronti delle teorie complottiste, che attribuiscono a una congiura e non a un tragico incidente – pasticcio di laboratorio o “salto di genere” – la pandemia che sta mettendo in ginocchio l’Italia. A confortarmi in questa opinione è stata la rilettura di un classico della letteratura di tutti i tempi: Guerra e pace del conte Leone Tolstoj. Poter anteporre gli ozi letterari ai negozi è uno dei pochi vantaggi di quello che ormai va di moda chiamare lockdown, termine meno allarmante del suo equivalente italiano, confinamento, evocatore di antiche misure di polizia.
Nel suo capolavoro, parlando dell’incendio di Mosca occupata dalle truppe di Napoleone nel 1812, Tolstoj prende le distanze sia dalla storiografia russa, che addebitava l’incendio alla ferocia e al vandalismo delle truppe francesi, sia da quella francese, che lo faceva risalire ai cinici ordini del conte Rastopcin, governatore della città, nell’ambito di una strategia della terra bruciata nei confronti del nemico.
Secondo Tolstoj, invece, “Mosca s’incendiò per causa delle pipe, delle cucine, per incuria dei soldati nemici, abitanti e non padroni delle case. Mosca doveva bruciare come deve bruciare ogni villaggio o casa di dove i padroni se ne vadano e in cui si lasci entrare gente estranea. Mosca fu bruciata non da quegli abitanti che vi erano rimasti, bensì da quelli che ne erano partiti. Mosca, occupata dal nemico, non restò intatta come Berlino, Vienna e altre città, solo per il fatto che i suoi abitanti non recarono il pane e il sale e le chiavi ai francesi, ma se ne partirono…” In sostanza, una città con soffitti, infissi e spesso mura di legno, abbandonata a una soldataglia irresponsabile, dedita al saccheggio e alla crapula, non avrebbe potuto fare una fine diversa.
Non so se l’interpretazione di Tolstoj sia quella giusta per quanto riguarda l’incendio di Mosca, ma credo che se ne possano trarre spunti interessanti per comprendere la genesi del Coronavirus. Che non credo sia una scheggia impazzita della guerra batteriologica, ma la fatale conseguenza da un lato di carenze igieniche e superficialità nel controllo di laboratori, dall’altro dalle reticenze da parte delle autorità di Pechino nel comunicare al mondo i pericoli.
Se il Coronavirus non è figlio di un complotto, resta però il sospetto che forze da tempo interessate a limitare le nostre libertà individuali, a esercitare un controllo capillare sulla società, a innescare un clima da caccia all’untore contro chi trasgredisce alle regole, a sottoporre a censura informatica le nostre opinioni, a decidere, per classe anagrafica, chi può uscire di casa e chi no siano state tentate di trarre vantaggio da una congiuntura che la pandemia ha servito loro su un piatto d’argento. Il fatto stesso che il capo della task force Coronavirus in Italia sia l’ex manager milionario di una multinazionale della telefonia mobile potrebbe giustificare qualche sospetto. Così come è allarmante il peso crescente che la tecnologia informatica sta assumendo nella nostra vita quotidiana, a tutto svantaggio di chi non è un nativo digitale ed è affezionato a quelle consuetudini che costituiscono anche tanti piccoli piaceri della vita. Recarsi in un ufficio per risolvere civilmente un problema senza impazzire davanti a un sito internet, o in banca per fare un bonifico e scambiare quattro chiacchiere con la cassiera, salire su un autobus o in treno dopo aver fatto il biglietto e non dopo aver prenotato con una app, spostarsi da un luogo all’altro senza essere monitorati da un grande fratello informatico, pagare il conto del ristorante sfilando dalla tasca il portafogli invece che digitando un codice sul cellulare, potrebbero in futuro divenire lussi di un bel tempo andato, come lo furono per i nostri nonni farsi fare tutti i giorni la barba dal parrucchiere e lo sono stati per noi andare dal benzinaio, ordinare “il pieno e i livelli” e vedersi pulire il parabrezza senza averlo chiesto. Tendenze già in atto, come quella a demonizzare l’uso del contante con la scusa di colpire l’evasione fiscale, o a informatizzare i rapporti fra il cittadino e la pubblica amministrazione, potrebbero ricevere un impulso decisivo dall’emergenza Coronavirus.
Detto in altri termini, non credo che né la Cina né Bill Gates abbiano “inventato” il Covid, così come non lo ha fatto chi ha speculato sulle mascherine; penso però che molte persone ne stiano già traendo profitto e ne trarranno ancora di più in futuro. E che questa emergenza, per quanto motivata, rischi di trasformarsi nella grande prova d’orchestra di una società carceraria in cui, se il potere non ce lo concede, non saremo liberi nemmeno di prendere il sole su una spiaggia deserta o di decidere se vaccinarci o no. Tutto il contrario della vecchia concezione liberale, secondo cui si può fare quello che non è espressamente vietato, e non viceversa.
Già ci è stata imposta in questo primo scorcio del nuovo millennio una neolingua, col divieto di usare voci “nobili” perché ricavate direttamente dal latino, come “negro” sostituito da “nero”, brutto calco dell’inglese “black”, o la sostituzione del termine “sesso” con “genere”, o il divieto assurdo di far precedere il cognome di una donna dall’articolo. Ora non mi meraviglierei se volessero imporci una neovita e prima o poi, col ricorso a un’eutanasia più o meno mascherata, a una neomorte.
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