La politica, come il calcio, altri sport, gli spettacoli e tante altre cose in questi tempi di ‘Coronavirus’ è entrata in una sorta d’ibernazione. Certo, si polemizza, ma sul contingente, non sapendo quando le normali attività, elezioni comprese, riprenderanno. Pare, comunque, da alcuni indizi, finita la tregua che all’inizio del lockdown, in Italia ed altrove, sembrava accomunare partiti, maggioranze, opposizioni. Protesta addirittura la Chiesa, per il divieto di celebrare messe e funzioni. Matteo Salvini, dopo alcuni iniziali smarrimenti e contorsioni, ha affermato (26.4), sicuro d’interpretare il pensiero di molti:
“Fase 2? Diciamo basta, fateci uscire. Dopo 47 giorni diciamo basta, fateci uscire, fateci lavorare. Se non ci ascoltano ci faremo sentire, con i guanti e le mascherine torneremo a farci sentire, fuori dai social. Abbiamo ascoltato, abbiamo collaborato, abbiamo suggerito, abbiamo criticato educatamente, ora basta, a nome di milioni di italiani, basta. Fateci uscire, fateci guadagnare, fateci tornare a fare una vita”.
In Spagna, per tanti versi simile a noi anche in questa circostanza, l’ ex presidente del Governo José María Aznar e la portavoce parlamentare del ‘Partido Popular’, Cayetana Álvarez de Toledo, hanno sottoscritto, con un centinaio di intellettuali, scrittori, imprenditori, un manifesto nel quale la Fundación Internacional para la Libertad, presiedura dal Premio Nobel Mario Vargas Llosa, di cittadinanza peruviana e spagnola, e daI marchese di Vargas Llosa, condanna:
“la manipulación informativa” ed il confinamento coatto durante la pandemia in vari Paesi, accompagnato dalla “imposibilidad de trabajar y producir”, i pretesti per imporre misure autoritarie, che restringono gravemente le libertà, “han suspendido el Estado de derecho e, incluso, la democracia representativa y el sistema de justicia”, che “obligan a elegir entre el autoritarismo y la inseguridad, entre el ogro filantrópico y la muerte”. Il testo sostiene che risorgono aspetti deteriori di statalismo interventista, contro la democrazia liberale e l’ economia di mercato. Cita gli esempi “de las dictaduras de Venezuela, Cuba y Nicaragua, donde la pandemia sirve de pretexto para aumentar la persecución política y la opresión; de México, donde arrecia la presión contra la empresa privada y se utiliza el Grupo de Puebla para atacar a los gobiernos de signo distinto”. E in Spagna, naturalmente, dove, come in Argentina, dirigenti politici di una ben definita ideologia aspirano ad utilizzare le dure circostanze per introdurre ingiustificabili cambi politici e misure economiche, che in altre circostanze la cittadinanza rifiuterebbe”.
(Da https://www.eldiario.es/politica/Alvarez-Toledo-Vargas-Llosa-autoritarismo_0_1019798967.html).
È di pochi giorni fa una dichiarazione di Vanessa Lillo – deputata di ‘Unidas Podemos’, la formazione del quarantunenne Pablo Iglesias, al Governo di Madrid con i socialisti del PSOE di Pedro Sáchez, portavoce per gli Affari Sanitari – che senza peli sulla lingua ha affermato che “la estrategia política de Iglesias y su núcleo duro pasa por aprovechar la oportunidad que deja el coronavirus para cambiar el modelo económico y político”. Quando ciò passerà, ha detto la deputata, svuoteremo i balconi per riempire le piazze, una “marea blanca” che sarà mobilitata per mesi, per radicalizzare la conflittualità sociale.
Ma sabato 25 aprile, alle 19, migliaia di spagnoli, dai balconi degli appartamenti ove son confinati, hanno manifestato con una sonora cacerolada (percuotendo cioè delle casseruole), convocata attraverso vari siti social, la loro protesta per la gestione del Covid-19, chiedendo le dimissioni del Governo di Sánchez e «por una España libre de mordazas» (bavagli). Cacerolada di segno forse opposto, ma simile a quella del precedente mercoledì 18 marzo, in concomitanza con il messaggio televisivo del re Felipe VI che appellava all’unità di fonte alla pandemia. Allora si chiedeva che il re emerito Juan Carlos fosse obbligato a donare alla Sanità spagnola i 100 milioni, presuntamente ricevuti dall’Arabia Saudita, per una commissione attualmente investigata dalle magistrature svizzera e spagnola. Richiesta appoggiata dai partiti al Governo.
Al di là di eventi contingenti è il caso di dare uno sguardo alle dinamiche della politica spagnola, anche perché essa ha le sue peculiarità, ma, per un altro verso, similitudini non da poco con quella italiana, a partire dalla somiglianza delle coalizioni di governo: PD-5 Stelle in Italia, socialisti e ‘Podemos’ (una formazione della sinistra repubblicana, nata come antisistema, alla pari dei grillini, ‘sardinesca’, demagogica e comunistoide) in Spagna. All’opposizione fino allo scorso dicembre, il giovane Iglesias da alcuni anni insiste su tre sfide: “la corrupción, el problema social y la plurinacionalidad”, scagliandosi ripetutamente contro il sovrano Felipe VI, accusato di non dire assolutamente nulla di concreto circa le tre sfide, avendo fatto suo il discorso della destra politica, cioè non comprendendo la Spagna, avendo una visione ristretta del Paese:
“¿Cuál es el papel de la monarquía?”, attaccando direttamente il ruolo di Felipe VI nella democrazia spagnola. “¿Esto para qué? ¿Esto une a los españoles? ¿Su figura sirve para unir a los ciudadanos? ¿Esto ofrece alguna solución?” Per Iglesias, il Re può, anzi, essere un limite alla “construcción de un proyecto común” e “amenaza la continuidad de un proyecto viable de país” (https://elpais.com/politica/2017/06/29/actualidad/1498748026_662325.html).
Il 13 gennaio del corrente anno, Pedro Sánchez ha presentalo alla Moncloa i 22 membri del primo Esecutivo di coalizione della democrazia spagnola (ma con l’appoggio benevolo e fondamentale dei partiti regionali, più o meno indipendentisti), a partire dal 1978. Un capolavoro di equilibrismo e fragilità, in ogni caso: 167 voti a favore, 165 contrari e 18 astenuti (dei partiti autonomisti baschi e catalani) per la coalizione di sinistra.
Scriveva José Manuel Romero sull’autorevole “El País” di Madrid lo scorso 8 gennaio:
‘Los 10 retos más difíciles del futuro Gobierno. El Ejecutivo de PSOE y Unidas Podemos afronta sin mayoría absoluta un calendario de reformas complejas amenazado por la negociación sobre el futuro de Cataluña’.
Già, dieci sfide. Il Governo Sánchez-Iglesias nasceva debole e con in mano la patata bollente della Catalogna, la crisi territoriale più complessa della storia della Spagna moderna. Per cercare di risolvere la quale l’Esecutivo di Madrid pensava a negoziati con differenti attori politici ed a ‘tavoli di dialogo e negoziazione’ extraparlamentari. ‘Esquerra Republicana de Catalunya’ (il primo partito catalano, indipendentista e di sinistra), il cui presidente Oriol Junqueras, condannato a 13 anni di reclusione per il Referendum illegale del 2017 e reati connessi, vive in semi-detenzione, proclamava di negoziare per ottenere l’autorizzazione di Madrid per un referendum sull’ autodeterminazione della Catalogna; per il quale occorrerebbe una riforma costituzionale, al momento impossibile in quanto l’attuale governo… non dispone dei voti necessari! Ed i partiti di destra sono, ovviamente, contrarissimi.
E con un programma di riforme ambiziose, di taglio radicale e laicista, in materia di bilancio e fiscale, educativa (sostanzialmente contro le scuole private rette da religiosi), di lavoro (aumentando le facoltà sindacali e limitando drasticamente il potere degli imprenditori), di cambio climatico (per ridurre le emissioni considerate causa dell’ ‘effetto serra’ , favorendo la transizione alla elettrificazione degli autoveicoli, con l’obiettivo, chimerico, di avere nel 2050 una generazione di elettricità al 100% da fonti rinnovabili, non fossili e non nucleari) ecc. ecc.
Le critiche del centro-destra sono state subito aspre e certamente si riaffacceranno dopo il ‘letargo’ imposto dalla pandemia. Scriveva sul quotidiano “Expansión” – il principale organo economico del Paese, simile al nostro “Sole 24 Ore” – Rosa Diez l’ultimo giorno del 2019, in termini durissimi:
‘El nuevo PSOE está deconstruyendo España’ (I nuovi socialisti stanno distruggendo Spagna)
‘Rodriguez Zapatero lavò la storia dell’ ETA; Sánchez lava la storia del golpismo e della supremazia catalana e basca. Il 2019 ha segnato un punto d’inflessione nella storia del Partido Socialista Obrero Español; è stato l’anno nel quale il PSOE ha abbandonato il meglio della sua tradizione democratica per abbracciare i miti più rancidi e vetusti del nazionalismo identitario. Come quando Zapatero decise di fare un accordo politico con i terroristi dell’ ETA (n.d.r. 2004-2006). Il danno alla democrazia si produsse nello stesso momento in cui il Presidente del Governo convertì la banda terrorista in un interlocutore per conversare sul futuro della Spagna, da eguale ad eguale. Ciò che ETA non aveva guadagnato asessinando oltre 850 nostri concittadini: ottenne che il partito che governava la nazione accettasse la sua pretesa di assassinare come conseguenza di un conflicto político no resuelto, convertendo i carnefici in vittime della Democrazia Spagnola. ETA smise di uccidere perchè fu sconfitta dalla Giustizia, dalla Polizia, dalla collaborazione internazionale, dalla mobilitazione popolare. Oggi i suoi eredi ci governano perchè Zapatero legittimò la sua storia di terrore. Zapatero lavò la storia dell’ ETA; Sánchez lava la storia del golpismo sedizioso e della supremazia catalana e basca. Sánchez accetta la condizione dei sediziosi, dei profughi di costituire un tavolo di partiti per negoziare temi di pertinenza del Parlamento, come se stessimo in una fase precostituente ed accoglie la creazione di un foro extraparlamentare. Vedremo fino a che punto questa inflessione del socialismo spagnolo riuscirà a distruggere la Spagna democratica e costituzionale, della quale godevamo da quando venne recuperata la democrazia’.
(Da https://www.expansion.com/economia/politica/2019/12/31/5e0a655ce5fdea09668b.html).
Il sistema politico spagnolo, alle prese con molteplici, gravi questioni, al di là dell’agenda dell’attuale governo e delle modalità per costituirlo, non riesce da anni ad esprimere una maggioranza chiara di governo ed è stato percorso nell’ultima decade da molteplici e concomitanti fattori di crisi, anche se è stata superata la lunga stagione del terrorismo armato basco. In breve:
1. Crisi economica e malessere sociale (assai acuti nel 2012-2013, poi solo in parte risolti e senza parlare dei danni derivanti dall’attuale pandemia, che già ha fatto oltre 24.000 vittime, accanitasi sul sistema socio-economico spagnolo non meno che su quello italiano);
2. Crisi dei due maggiori partiti nazionali, che si erano alternati al potere dal 1982 (quando Felipe González prese il posto di Leopoldo Calvo Sotelo dell’UCD), i socialisti del PSOE ed il ‘Partido Popular’, erede dell’ ‘Alianza Popular’ di Manuel Fraga Iribarne, di centro-destra, erede del franchismo moderato, di una democrazia cristiana mai nata, del moderatismo, del liberalismo. La nascita di nuove formazioni: Ciudadanos, Podemos, Vox.
3. Crisi della Monarchia, culminata, ma non risolta, con l’abdicazione di Juan Carlos I e l’assunzione del nuovo sovrano Felipe VI (giugno 2014);
4. Molteplici scandali di corruzione pubblica. Impossibilità, dal 2015, nonostante varie successive elezioni politiche generali, di costituire vere e solide maggioranze di Governo;
5. Processo sovranista catalano. Referendum d’indipendenza del 1 ottobre 2017 e seguiti.
Tralasciando un’analisi puntuale dei vari punti, che eccede questo articolo, mi soffermerò in particolare sul punto 3, la crisi della Monarchia, con tante radici e cause, ma maturata a partire dalla fine del 2011.
La storia della dinastia di Borbone, giunta al trono delle ‘Spagne’ col nipote di Luigi XIV, Filippo d’Angiò, riconosciuto come re Filippo V nel 1714, è una storia tormentata, dove malattie, in gran parte frutto dell’endogamia reiterata, incapacità, indolenza, scarse doti intellettuali e di carattere, bizzarrie caratteriali, sessualità sfrenate o torbide (con conseguenze talora tragiche, talora comiche) dei sovrani, si dipanano su di uno sfondo d’incessanti conflitti, attentati, reggenze, abdicazioni, restaurazioni, instabilità permanente, due repubbliche ed una monarchia parlamentare (affidata del 1871 ad Amedeo d’Aosta, figlio del Re d’Italia, fino alla sua rinuncia due anni dopo), la terribile guerra civile del 1936-’39, in un marasma che sembrò giungere all’apice – e non era neppur vero – con el ‘Desastre del 1898’, allorchè il Regno perse, nella guerra contro gli Stati Uniti, le sue ultime colonie americane (Cuba e Porto Rico), le Filippine, Guam.
Era pur sempre, nonostante le umiliazioni subite nell’epoca napoleonica, l’orgogliosa Monarchia dei Re Cattolici Fernando di Aragona ed Isabella di Castiglia, che espulse i musulmani da Granada (1492), unificando la nazione cristiana, scoprì e s’impossessò di quasi tutto il Nuovo Mondo, dominò con i magnifici tercios – il primo esercito moderno europeo – il continente con Carlo V e Filippo II – che fu anche re di Portogallo e Algarves dal 1580 e re d’ Inghilterra ed Irlanda iure uxoris, per il matrimonio con Maria I Tudor tra il 1554 e il 1558 – ispirò la “Monarchia di Spagna” di Tommaso Campanella, approccio di monarchia universale, sulle orme del “De Monarchia” di Dante. Fino al cambio di dinastia, per estinzione, dagli Asburgo ai Borbone, all’inizio del XVIII secolo, ed al successivo declino dopo Carlos III.
Per capire il tenace ‘particolarismo’ di alcune regioni spagnole (in ultima analisi eredità dell’assetto feudale e di uno Stato Moderno mai consolidato), che Franco denominò il “nostro demone domestico”, è opportuno riflettere su ciò che fu storicamente la Monarchia spagnola, l’organizzazione politica che affonda le radici nel Regno Visigoto, tra il V e l’VIII secolo. Nel 1469, Fernando ed Isabella contrassero matrimonio unendo dinasticamente le due corone maggiori della penisola. L’unione permise, come accennato, l’espulsione dei musulmani e l’incorporazione (pur temporanea) della Navarra. Giovanna ‘la Pazza’, figlia dei Re Cattolici ereditò le due corone ed il figlio, l’Imperatore Carlo V, consolidó l’ unione, venendo denominato Hispaniarum Rex Catholicus dal papa Leone X nel 1517. ‘Spagne’ erano essenzialmente i regni di Castiglia, di Aragona, di León. Filippo II, il creatore dell’Escorial e vincitore di Lepanto, successe al padre nel 1556, usando nei documenti la formula abbreviata Hispaniarum et Indiarum Rex. Nella Costituzione di Cadice del 1812 si parlava ancora di ‘Spagne’. Con la morte di Fernando VII nel 1833 e la Reggenza della vedova (e nipote) Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie la Monarchia perse il suo carattere assoluto. Nella Costituzione del 1869, con l’affermazione della ‘Nazione Spagnola’ il territorio venne infine definito, al singolare, “Spagna”.
Certo, in mezzo ci furono vari accadimenti, tra cui la famosa ‘Diada’, la capitolazione di Barcellona, sede del pretendente Asburgo durante la Guerra di Successione Spagnola, l’11 settembre 1714, di fronte alle truppe borboniche di Filippo V. Ma la memoria di quel fatto di oltre tre secoli fa, dapprima una riunione di innocui nostalgici (dal 1886), solo da qualche anno è diventata l’occasione per gli indipendentisti di riunirsi ed invocare l’indipendenza dalla Spagna, una giornata di difesa di diritti e di libertà, un atto di riaffermazione, a gran voce, dell’identità sovrana della Catalogna e dei suoi diritti come nazione (che storicamente non si concretizzò mai). Oggi il Re Cattolico Fernando è ampiamente criticato dai nazionalisti, che vedono nella sua scelta del XV secolo l’inizio della fine dell’indipendenza. In ogni caso, per molto tempo, le due Monarchie che formarono la Spagna mantennero ampie autonomie.
Scrisse Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” del 17.12.2017, dopo lo svolgimento dell’illegale referendum contro Madrid (1.10.2017):
“Il catalanismo è come il richiamo della tribù. Un mondo chimerico, inventato, Sarebbe un’ indipendenza sentimentale, non politica. Ma i sentimenti possono anche ingannare. Come ha detto Vargas Llosa: la vera Catalogna non è l’ incubo anacronistico sognato dai separatisti! Non c’ è nulla di più reazionario della sinistra nazionalista”.
E citando lo scrittore e columnist Javier Cercas:
“L’ identità collettiva non esiste. Il catalanismo si basa sulla rottura con la realtà. Sul sonno della ragione. Su un cumulo di menzogne, destinate a coprire la cleptocrazia. Parlano di patria per continuare a rubare. La menzogna più grande è che la Spagna di oggi sia franchista: un oltraggio alle vittime del franchismo, quello vero. La seconda bugia è che la Catalogna fosse antifranchista. Aveva ragione Vázquez
Montalbán: nell’ ora più nera della dittatura gli antifranchisti di Barcellona avrebbero potuto prendere tutti lo stesso autobus. Viviamo la crisi più grave del dopoguerra. Rischiamo di diventare un’ Irlanda del Nord senza le bombe. Gli arresti alimentano il vittimismo, che è il carburante del nazionalismo”. (http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/lungo-inverno-catalogna-cazzullo-rsquo-illusione-163075.htm).
Il quindicenne Alfonso XIII, re dalla nascita a causa della prematura morte del padre, Alfonso XII, scriveva nel suo Diario il 1 gennaio 1902, prossimo a compiere 16 anni – essere giudicato maggiorenne e così atto a regnare nel maggio successivo – ponendo fine alla Reggenza della madre Maria Cristina d’Asburgo:
“Io mi ritrovo con il Paese infranto dalle nostre guerre, che desidera ardentemente che qualcuno lo smuova da questa situazione: la riforma sociale per le classi più bisognose, l’Esercito con una organizzazione antiquata che ignora i progressi, una Marina senza navi, la bandiera oltraggiata, i governatori e sindaci che non rispettano le leggi e non le fanno compiere ecc. Infine tutti i servizi ed uffici disorganizzati e male curati”.
Durante il suo regno la Spagna non risolse i quattro grandi problemi che ebbero alfine la meglio sulla Monarchia costituzionale e liberale, faticosamente avviata nel 1834: 1. la mancanza di una vera rappresentanza politica per ampi gruppi sociali; 2. le disastrose condizioni dei ceti popolari, in ispecie dei contadini, 3. i problemi derivanti dalla lunga guerra marocchina del Rif; 4. il nazionalismo catalano, con la sua borghesia insofferente ed il proletariato anarchico.
La turbolenza politica non conobbe soste. Una vera democrazia liberale non riuscì ad affermarsi e così il Paese scivolò della dittatura militare di Primo de Rivera, sostenuta dal sovrano, che quando pensò a restaurare la normalità democratica era troppo tardi, essendo stato abbandonato dall’intera classe politica. A seguito delle elezioni municipali dell’aprile 1931 Alfonso XIII lasciò la Spagna con la famiglia, conscio che nelle zone urbane aveva perso, come in un plebiscito non dichiarato tra Monarchia e Repubblica. Giunse così la II Repubblica, dalla vita breve e tormentata. Alfonso XIII fu giudicato severamente dagli storici per le sue intromissioni in politica; e colpevole di “alto tradimento” dal successivo Governo repubblicano. Nel 1937 cercò di accattivarsi Francisco Franco, che era stato un suo pupillo, per la restaurazione monarchica, ma ne ebbe un secco rifiuto. I suoi errori, compresa una vita privata dissoluta (seduceva anche le bambinaie delle figlie, aveva numerosi figli illegittimi ed era un cultore appassionato della pornografia, producendo egli stesso alcuni film), non lo consigliavano…
Dopo la vittoria dei nazionalisti la Spagna tornò nominalmente ad essere una Monarchia, nel 1947, ma con Franco Generalissimo e Capo dello Stato vitalizio, “Caudillo de España por la Gracia de Dios”. Egli non aveva fretta di scegliere (tardò infatti fino al 1969) e rispose in vari modi alle impazienze dei monarchici e di Juan de Borbón, conde de Barcelona, figlio di Alfonso XIII e padre di Juan Carlos (Roma, 1938), che acconsentì compisse i suoi studi in Spagna e del quale fu una sorta di tutore e mentore, sino alla propria morte. Una su tutte risalta, per la sua crudezza un po’ cinica, sulla opportunità di mantenerlo lontano dal trono:
‘Mírese Vuestra Alteza a sí mismo: dos hermanos hemofílicos [Alfonso y Gonzalo] fallecidos jovenes, otro sordomudo [Jaime]; una hija ciega [Margarita]; un hijo muerto de un tiro [Alfonso] por su hermano. A los españoles, tantas desgracias acumuladas sobre una sola familia, no puede agradarles’.
Juan Carlos I de Borbón fu così proclamado Re di Spagna e Capo di Stato il 22 novembre 1975, dopo la morte di Francisco Franco, avvenuta dopo lunga agonia il 20 novembre, secondo la Ley de Sucesión en la Jefatura del Estado del 1947. Nel 1975 la Spagna sulla quale si apprestava a regnare Juan Carlos I non era una dittatura sanguinaria ed oscurantista, governata da fanatici falangisti o da ottusi militari, e neppure il Paese arretrato ereditato dal giovane Alfonso XIII nel 1902, ma da vari anni uno Stato sì autoritario e con tratti illiberali, ma sostanzialmente ben amministrato, ispirato da una tecnocracia desarrollista, guidata, ovvio, da tecnocrati, in una congiuntura di notevole crescita economica. Se la ‘transizione politica’ inizierà nel 1976, la ‘transizione sociale’ l’anticipò di oltre tre lustri, a partire dall’aperturista ‘Plan de Estabilización’ de 1959, che buttava alle ortiche le fanfaluche autarchiche. Con la consapevolezza dei più, Franco compreso, che altri cambi profondi, in una direzione ‘europea’, erano inevitabili. Storicamente falso è leggere, ancora oggi, che Franco pensasse di continuare indefinitamente il suo regime, affidandolo ad un Carrero Blanco o ad un Juan Carlos de Borbón…Certo, la Spagna dell’ultimo franchismo e della transizione è percossa brutalmente dal terrorismo dell’ETA e dell’estrema sinistra, ma lo stesso succedeva in Germania, Italia, Regno Unito, in democrazie sviluppate e consolidate. Anche se alla sinistra viene sempre concesso l’alibi della lotta contro la dittatura…
Nel maggio 1977, il padre Juan, conde de Barcelona, rinunciò ai suoi diritti dinastici e alla jefatura de la Casa Real, constatata la pratica impossibilità di accedere personalmente al trono. La Costituzione, ratificada por referendum popolare il 6 dicembre 1978, legittima il ruolo di Juan Carlos, lo riconosce esplicitamente come Re di Spagna, legittimo erede della dinastia borbonica, Capo dello Stato e Comandante delle Forze Armate. Conferisce alla sua dignità il rango di simbolo dell’unità nazionale. I consiglieri del re, gli artefici della Transición, giova ricordarlo, furono nell’occasione personaggi, provenienti dal regime franchista, di gran valore, equilibrio, acume (Torcuato Fernández-Miranda Hevia, Manuel Fraga Iribarne, Adolfo Suárez, Manuel Gutiérrez Mellado, José María de Areilza, Antonio Garrigues, Alfonso Osorio, Rodolfo Martín Villa su tutti).
Juan Carlos avrebbe potuto accumulare potere grazie alla legislazione franchista, ma intelligentemente capì che l’opinione pubblica non l’avrebbe seguito. Così egli offerse alle forze politiche, in un momento d’impasse, un ruolo di moderatore. I partiti compresero nello scenario polarizzato del 1975-’76 che poteva essere utile avere un arbitro. Il re aiutò a salire dal punto morto: garantì un processo democratico ed aperto all’opposizione da legalizzare; ordine, assenza di cambi rivoluzionari e rappresaglie ai settori lealisti. La legittimazione futura necessitava dell’identificazione della Monarchia con i valori democratici, quella retrospettiva con il passato autoritario. Grazie a Juan Carlos la fine della dittatura non fu traumatica. Le sciocchezze della Ley de Memoria Histórica di Zapatero, l’esumazione del cadavere di Franco dal Valle de los Caídos da parte del Presidente Sánchez (Pedro el sepulturero) ed altre revanches erano remote…
Il ruolo positivo del sovrano ebbe modo di palesarsi appieno durante il farsesco tentativo di golpe del 23 febbraio 1981. Quel giorno, durante la seconda votazione del candidato alla Presidenza del Governo, Leopoldo Calvo-Sotelo, si verificò la presa del Parlamento (Camera dei Deputati) ad opera di effettivi armati della Guardia Civil agli ordini del baffuto tenente colonnello Antonio Tejero. Simultaneamente, a Valencia, il comandante della III Regione Militare, tenente generale Jaime Miláns del Bosch, occupò alcuni spazi con i carri armati. L’intervento televisivo di Juan Carlos, sconfessando il golpe, terminò rapidamente l’incipiente insurrezione, che pensava di contare con l’appoggio della Corona, e contribuì ad aumentare il suo carisma tra i settori politici fino ad allora tiepidi con la Monarchia, che ne uscì assai consolidata.
La rivista Time scrisse che Juan Carlos, già “Re per Grazia di Franco”, battezzato da alcuni “Juan Carlos il breve”, era sorto “come uno degli eroi più improbabili, ma ispiratori della libertà del secolo”. Anni più tardi iniziarono i dolori di capo per Juan Carlos e la dinastia. Sempre più acuti. A cominciare dal matrimonio dell’erede Felipe, principe delle Asturie, con Letizia Ortiz Rocasolano (Oviedo, 1972) giornalista televisiva (presentatrice del Telediario della TVE), di origini familiari modeste, divorziata, atea, repubblicana, pare con alle spalle un aborto volontario nel 2002 – e pertanto ‘tecnicamente scomunicata’ secondo il diritto canonico al momento delle nozze del 22 maggio 2004 – madre dell’infanta Leonor (erede al trono, nata nel 2005) e dell’infanta Sofia (2007). Secondo insinuazioni giornalistiche ora incinta per la terza volta, a quasi 48 anni. Quel che è peggio, agli occhi dei sudditi, con un carattere indipendente, difficile, dominante, che l’ha subito portata allo scontro con tutta la famiglia del suo esposo real e, come regina dal 2014, protagonista di gaffes, atteggiamenti altezzosi, risposte maleducate e vari incidenti protocollari che i media hanno raccolto e diffuso. Dal 2014 sono rientrate le voci di divorzio della coppia, che veniva dato per imminente. Certamente la magrissima ed elegante (con valutazioni discordanti su tale aspetto) donna Letizia, ed altrettanto arrogante e scostante, non risulta simpatica a nessuno (e non per i suoi natali plebei), il che per una monarchia fragile come lo è ora la spagnola significa un altro grosso handicap.
Il marito dall’alta, ora barbuta figura, Felipe VI, succeduto ad un padre, già rispettato dall’opinione pubblica, ma diventato “impresentabile” (e pieno di acciacchi), pare colmo di buone intenzioni, anche se per un macho español (o quel che ne resta) non deve sembrare proprio il massimo l’essere, a volte, pubblicamente ripreso dalla irascibile consorte…
La personalità pubblica di Felipe VI, dal 2014 ha preso un cammino assai differente da quello del padre. Egli rivela una personalità introversa, più seria, più lavoratrice, più adatta alla scrivania. All’interno della Casa Real ha disposto una maggiore austerità e discrezione, un trattamento senza eccessi di simpatia o relazioni personali con i dirigenti politici. Il sovrano si comporta molto discretamente, come un vero “rey profesional”. Tale mutamento d’immagine della Monarchia è stato determinato anche dalla reazione causata dagli scandali suscitati dal suo predecessore. In tal senso l’opinione pubblica pare abbia apprezzato un comportamento più conservatore e formale. Positiva è pure sembrata la riduzione della Famiglia Reale al re, regina, le due figlie ed i genitori, lasciando fuori le sorelle e le loro famiglie. Gli spagnoli sembrano approvare l’austerità di un sovrano che dovrebbe evitare gli errori commessi dal padre Juan Carlos. Tuttavia, tali caratteristiche della personalità pubblica di Felipe VI potrebbero tradursi in ostacoli all’ora di stabilire forti connessioni con la società. Un re distante, freddo, difficilmente può essere un buon re di Spagna. Alla legittimità di origine bisogna aggiungere una parte che si deve guadagnare. Al re Felipe sembrano mancare umanità e cordialità. Tutti pensano trattarsi di una persona molto preparata, con un gran conoscimento delle tematiche. Ma trattasi di categorie politiche, mentre in quelle più propriamente umane il sovrano denuncia carenze. Molti pensano, altresì, che i cambi introdotti da Felipe non siano sostanziali e tali da far recuperare alla Monarchia il terreno perduto negli ultimi anni del regno del padre. La crisi innescata dai comportamenti di Juan Carlos non avrebbe determinato una crisi congiunturale, bensì strutturale. C’è, sempre più, una generazione di cittadini che invoca un referendum istituzionale. Forse lo vincerebbe la Monarchia, ma una Monarchia non si regge sul 50,1%. “Un rey sin mito” viene definito da alcuni Felipe VI. Juan Carlos I divenne Capo dello Stato per designazione di Francisco Franco. Ma le decisioni ed il ruolo svolto durante la transizione gli valsero la simpatia e l’accettazione di vasti settori della società.”En España, monárquicos no hay o hay pocos. Había juancarlistas” si dice, cioè l’adesione ad una persona, non all’istituto. L’abdicazione di Juan Carlos I e l’ascesa di Felipe VI ha lasciato molti di tali juancarlistas privi del referente sul trono. “Ci troviamo di fronte ad un Re senza mito. Juan Carlos incarnava un mito: quello del 23F, durante 40 anni considerato il difensore e salvatore della democrazia”, si sente commentare qui e là.
(Da Pablo Esparza, Cómo ha cambiado la monarquía en España en los 3 años de reinado de Felipe VI, un rey “profesional” y “sin mito”, in: Especial para BBC Mundo, España, 19 junio 2017, https://www.bbc.com/mundo/noticias-internacional-40278664).
La Spagna si sta forse preparando alla sua Terza Repubblica, in tempi ravvicinati?
info@barbadillo.it
L’ordinamento monarchico è in crisi, soprattutto di stile, in tutta Europa, e non solo in Spagna. Quella britannica ad esempio è una monarchia da ridere, che ormai fa parlare di sé solo sui giornali scandalistici. Poi vengono concessi titoli e onorificenze con troppa facilità. Ad esempio, l’allenatore Del Bosque per aver vinto i Mondiali del 2010 con la Nazionale di calcio spagnola, ebbe concesso da Re Juan Carlos il titolo di marchese. Un po’ eccessivo, visto che si tratta di un merito sportivo, per il quale esiste l’onorificenza dell’Ordine civile di Alfonso X il Saggio. Le monarchie potevano avere senso fino alla prima metà del XX secolo, quando ancora vi erano distanze fra aristocrazia e resto della popolazione. Ormai queste distanze sono quasi inesistenti, e l’aristocrazia si è fortemente volgarizzata, nel senso che ha assunto le peggiori caratteristiche della borghesia e del proletariato. Poi la Spagna è una nazione a perdere dove il liberalprogressismo sinistroide domina ed ha infettato la società ben peggio che da noi. Se uno come Almodovar viene considerato uno degli emblemi della cultura spagnola odierna, vuol dire che lì sono messi male, per cui un’eventuale caduta della monarchia rappresenterebbe solo l’esito inevitabile di un processo di degradazione che prese avvio dopo la morte del Caudillo (che Dio lo abbia in gloria).
Ma Aznar non ebbe nulla perchè non stava simpatico al Re! Felipe Gonzalez rifiutò…
Del resto la Regina Elisabetta da sempre concede titoli a personaggi dello sport. E pure il ciclista Mercks è stato fatto barone dal re dei Belgi…