«A nessuna industria televisiva sembra che interessi dei tifosi, ma senza l’urlo e il movimento del pubblico il calcio sarebbe uno zero. Il calcio è una storia di passione. Sarà sempre così. Senza la passione, il calcio è morto: solo 22 uomini che corrono su un prato e danno calci a una palla. È la tifoseria che fa diventare il calcio una cosa importante». John King, nel suo Fedeli alla tribù, pietra miliare della letteratura da stadio, non era stato ambiguo. La sua frase, qualche anno fa, è finita su un libro grande quanto una curva, nella coreografia preparata dagli ultras interisti per Inter-Napoli del 26 aprile 2014.
Non c’è bisogno di andare in curva, tuttavia, per capire che il calcio senza pubblico non è calcio. Piuttosto che l’abusato cliché pasoliniano sull’«ultima rappresentazione sacra dei nostri tempi», di tanto in tanto, quando si parla di pallone a certi livelli, esce fuori la teoria della guerra ritualizzata. L’impossibilità della guerra non ha portato alla pace, ma tutto ha reso guerra. In tempi di covid-19, “ci sentiamo in guerra”.
La guerra tradizionale ha avuto i suoi surrogati, tra questi il calcio è il più importante. Ci era arrivato Desmond Morris, ne La Tribù del calcio:
«Uno dei modi per rispondere ai bisogni esistenziali coperti dalla guerra consiste nel fornire e nel favorire dei sostituti simbolici e innocui».
Aveva rilanciato Massimo Fini, in Elogio della guerra:
«Lo Stato di oggi non può permettersi di legittimare la violenza. Ci si deve fermare al livello simbolico. Gli sport a squadre, a cominciare dal calcio, sono sicuramente una metafora della guerra».
Con buona pace del barone De Coubertin e di tutta una prosopopea filantropico-umanistica. Chi si è spinto oltre, rintracciando la matrice culturale del calcio nella christianitas medievale, è lo scrittore cattolico Vittorio Messori.
«La società cristiana medievale – scrive Messori in Pensare la storia, 1992 – nel suo realismo il quale, sull’esempio di Gesù stesso, “non ignora che cosa c’è nel cuore dell’uomo”, favorì ogni tipo di “rappresentazione metaforica della guerra”, sapendo che più si giocava alla battaglia, meno si era tentati di farla sul serio. Le giostre, i tornei, le disfide che riempiono il Medioevo hanno, appunto, questa funzione. In ogni città, poi, i magistrati favorirono un qualche gioco che, mettendo l’uno contro l’altro gli abitanti, sfogasse le pulsioni intestine. I giochi del palio (che sopravvivono a Siena, ad Asti e in qualche altro luogo, ma che furono diffusi, in infinite forme, in tutta la christianitas medievale) sono, esplicitamente, una rappresentazione periodica e istituzionalizzata della guerra civile tra rioni, quartieri, borgate, per evitare che si scatenasse davvero. Per noi i derbies calcistici hanno la stessa funzione».
Uno schiaffo al razionalismo che affonda nelle radici della storia italiana, locale, comunale, municipale.
Il campanilismo nel calcio, dunque, come un surrogato della guerra. È l’essenza stessa del calcio. Chi ha in mente un calcio senza pubblico, rischia di privare «l’oppio dei popoli» della sua stessa anima. Un surrogato di calcio che diventa mero prodotto televisivo. Insomma, signori che intendete concludere il campionato a tutti i costi, anche se a porte chiuse: quando sostenete che quelle ultime dodici partite di campionato che restano da giocare sono vitali per il calcio, esattamente… che calcio dite?