Venti anni fa terminava la sua purtroppo breve esistenza terrena Marzio Tremaglia. È stato uno dei pochissimi esponenti della destra di cui ho riconosciuto la superiorità politica e morale. Del padre Mirko aveva l’innata bontà e la coerenza delle idee, ma non quella gioviale assenza di realismo che l’indusse a credere che gli italiani all’estero del terzo millennio fossero come i loro nonni cresciuti nel mito delle trasvolate oceaniche di Italo Balbo.
Godevo immeritatamente della sua stima, legata forse anche alla partecipazione, per altro effimera, al mondo di quella Nuova Destra che aveva seguito con attenzione, nonostante quel famoso numero satirico della “Voce della Fogna”, contraffazione un po’ maldestra del “Male”, che accusava suo padre di essersi rubato un treno tricolore. Mi invitava a tutti i convegni, che organizzava da assessore alla Cultura della Regione Lombardia, con tanta onestà intellettuale da meritarsi il rispetto degli stessi avversari. Se un male incurabile non se lo fosse portato via, nel 2001 sarebbe divenuto il ministro della Cultura del centro-destra e anche la mia vita forse sarebbe stata diversa. Già qualche anno prima di morire mi aveva prospettato un incarico presso il suo assessorato, offerta che preferii declinare per non lasciare Firenze e il mio impegno in Consiglio provinciale.
Poco dopo la sua morte pubblicai su “Percorsi”, la bella rivista promossa e diretta da Gennaro Malgieri, un suo ricordo, intitolato “Un fratello ideale”. Lo ripropongo integralmente, con l’aggiunta di tre aneddoti.
Quando Mirko Tremaglia venne a Firenze, in visita ufficiale da ministro, e io lo andai a prendere appena arrivato alla stazione, insieme a una viceprefetta (l’allora prefetto Serra non si era degnato di farsi vivo), la prima cosa che mi disse fu che il mio ricordo del figlio gli era piaciuto. L’uomo poteva avere i suoi difetti, ma era ancora uno di quei politici che leggevano, e si ricordavano delle persone.
Il secondo aneddoto riguarda la corsa in tassì che facemmo insieme per arrivare all’aeroporto di Bari Palese. Era maggio e, anche se non era ancora cominciata la campagna per le Europee, comparivano i primi grandi tabelloni elettorali. In uno di essi campeggiava Gianfranco Fini con una polo rossa sotto la giacca. Gli espressi le mie perplessità su quella scelta cromatica. “Ha il gusto DI SOTTO” fu la sua risposta, e lascio la scelta fra maiuscole e minuscole al lettore.
Il terzo ricordo riguarda Luigi Lombardi Vallauri, il professore sul cui storico manuale Amicizia, carità, diritto sostenni l’esame di filosofia del diritto all’università di Firenze e con cui Marzio si laureò a Milano. Lombardi Vallauri, nipote del padre Lombardi “microfono di Dio”, è stato un geniale bastian contrario, tanto che perse la cattedra alla Cattolica per aver dichiarato che l’inferno non esiste in quanto incostituzionale: ma – come mi raccontò Marzio – fu l’unico professore ad avere il coraggio nella facoltà di giurisprudenza della Cattolica di dare la tesi al figlio di un deputato del Msi.
Unicuique suum.
Un fratello ideale
La prima impressione fu la stretta di mano. Asciutta, vigorosa, franca, quasi in contrasto con il suo fisico snello e con le sue abitudini da intellettuale abituato a leggere un libro al giorno contendendo i minuti agli uffici di pubblico amministratore e alla professione forense.
Ci stringemmo la mano per la prima volta il primo marzo 1998, sulle scomode gradinate dell’Assemblea veronese di Alleanza Nazionale; su cui aveva preso posto con allegra noncuranza senza reclamare, lui assessore alla Cultura nella più popolosa delle regioni amministrate dal Polo, uno dei posti riservati ai membri della nomenclatura.
Parlammo poco, fra un intervento e l’altro, ma quanto bastava, fra due persone che si conoscevano da tempo, senza essere mai stati presentati.
Non c’eravamo mai incontrati prima, ma ci seguivamo a distanza. Ci separavano cinque anni d’età: un nulla a quarant’anni. Che però, quattro lustri prima, quando, finita l’epoca della militanza, cominciavo con una pattuglia di amici l’avventura metapolitica e lui era un ragazzo che si affacciava agli studi universitari in una plumbea Milano anni Settanta, marcavano una distanza.
Mi confessò di seguirmi da tempo, di ricordare i miei vecchi articoli su “Elementi”, di aver letto qualche mio libro. Gli regalai e dedicai il mio pamphlet su I tre anni che sconvolsero la Destra, che aveva scandalizzato qualche dirigente di partito. Ma, evidentemente, non scandalizzò lui, visto che pochi mesi dopo si offrì di presentarlo e soprattutto m’invitò, a fine maggio, al grande convegno “Destra/Destre”, che aveva promosso nei locali della fondazione “Le Stelline”, roccaforte di una “Milano da bere” socialista trasformata grazie alla sua intelligenza politica in contenitore di una cultura non conformista troppo a lungo relegata negli inferni delle biblioteche e negli scantinati dell’ideologia.
Una cultura che Marzio sapeva promuovere senza faziosità né trionfalismi, ma senza neppure complessi d’inferiorità e goffi tentativi di captatio benevolentiae nei confronti dell’intelligentsia di sinistra, organizzando convegni, acquisendo archivi, sovvenzionando fondazioni, avvalendosi di collaboratori intelligenti come Luca Gallesi e Alex Voglino, con una curiosità intellettuale che faceva pensare a volte al miglior Bottai, a volte a un Camillo Pellizzi e che gli consentiva di avvicinare al campo della destra, in nome dell’antimondialismo e dell’opposizione a Maastricht, femministe storiche come Ida Magli.
Da allora divenni ospite fisso delle claustrali camerette dell’ex convento secentesco, in occasione dei convegni che con l’ausilio dell’associazione “Il Testimone”, il figlio dell’ex combattente della Rsi, cercando di riannodare storia e memoria, ragioni dei vinti e continuità nazionale, organizzava sulla dilacerata identità dell’Italia della guerra civile. Un’ennesima dimostrazione di come si possa fare il ministro della Cultura di una grande regione senza incappare nella palude dell’ordinaria amministrazione o nella trappola dell’effimero.
Proprio durante uno di quei convegni appresi come la vita di Marzio Tremaglia, ancor più di quella di ciascuno di noi, fosse effimera.
L’idea che un male senza ritorno avesse colpito quel giovane sano, asciutto, pulito, che conservava nel portamento il tratto distinto dell’ufficiale (era stato, credo, sottotenente degli Alpini), mi lasciò incredulo. Persino un anno fa, quando sulle sue condizioni di salute circolavano le voci più pessimistiche, conservai un frammento di speranza.
Ero stato invitato, insieme a lui, dai ragazzi di Azione Giovani della Terra di Bari, a un convegno il cui titolo, “La scommessa della cultura”, suona oggi come una sorta di testamento spirituale. Era il 3 maggio 1999: ricordo bene la data perché ricorreva il mio quarantesimo compleanno.
Per un momento, credetti di essermi sbagliato. Nonostante il volto e parte della calotta cranica imbolsiti dai cortisonici, nonostante i capelli rasati per l’ennesima operazione, Marzio colpiva per la lucidità della mente e l’apparente vitalità del fisico. Portava con coraggio e oserei dire con distinzione i segni crudeli della terapia. Parlò chiaro, com’era solito, senza enfasi né affanno, ricco di citazioni ma anche di argomentazioni, nel grande salone dell’Hotel Oriente caro agli incontri della destra pugliese.
Al termine del convegno Michele de Feudis consegnò a entrambi una targa che considerai il più gradito regalo di compleanno, con una dedica coronata da una frase di Ernst Jünger: “In lievi avarie o in grandi catastrofi, di veri amici ce ne sono sempre, non può essere una coincidenza.”
Cenammo in un bel ristorante di Torre a Mare. Sedevo accanto a Marzio e a Salvatore Tatarella, impegnato nelle elezioni suppletive nel collegio che era stato del fratello.
M’inventai una speranza quando lo vidi mangiare senza difficoltà né apparenti problemi di dieta anche gli splendidi e micidiali antipasti di mare che costituivano l’orgoglio della “Zi’ Teresa”.
Quando gli versai da bere, in un primo tempo rifiutò, poi accettò; forse, con la delicatezza di spirito che lo contrassegnava, per non far sentire in colpa me, che il vino potevo permettermelo.
Nella conversazione fu presente, misurato, affabile. Riuscì a divertirmi quando mi parlò del padre, della sua grande bontà di professore (quando insegnava in un istituto tecnico era sempre pronto a difendere gli studenti) e della sua umanità di genitore, superata solo dal culto delle patrie memorie: l’aveva picchiato una volta sola, quando, manovrando maldestramente il registratore, aveva scancellato l’incisione di una preziosa intervista a Donna Rachele.
Riuscii a scandalizzarlo, quando adattai a un noto sacerdote con tendenze omosessuali l’espressione irripetibile che Rebatet, nei Décombres, aveva coniato per un cattolico progressista francese. “Questa te la perdono perché sono le undici e mezzo”, fu il suo commento di cattolico non bacchettone.
Tornammo in albergo poco dopo. L’indomani ci aspettava una levataccia, per prendere il volo che fortunatamente eravamo riusciti ad assicurarci, lui per Milano, io per Roma, e rischiammo entrambi di perderli: il portiere d’albergo ci aveva assicurato che non c’era bisogno di prenotare, e invece la mattina, alle otto, i centralini dei radiotaxi erano intasati.
Appena, fortunosamente, arrivammo a Bari Palese, dovetti schizzare fuori dal taxi in movimento: il mio aereo partiva per primo, anzi sarebbe dovuto essere già in volo. Potei stringere solo la mano di Marzio. La sventatezza di un concierge mi risparmiò il patetico di un abbraccio che poteva essere l’ultimo, e lo fu.
Il direttore di questa rivista (Gennaro Malgieri, direttore di “Percorsi”, ndr), tanti anni fa, scrisse che la nostra generazione era stata una generazione senza padri, e con un solo fratello maggiore: Adriano Romualdi, morto nel ’73, a trentatré anni, in un incidente stradale sull’Aurelia.
In Marzio Tremaglia avevamo trovato il fratello minore ideale, che la nostra generazione di figli unici non aveva avuto. E anche lui la morte ce l’ha portato via nel fiore degli anni. Avremmo bisogno di un briciolo della sua fede per riuscire a farci una ragione dell’assurdità di questa perdita.
Ma forse, Dio ci perdoni, non ci basterebbe neppure quello.