A Roberto Escobar mi lega un’amicizia fondata sulla reciproca stima e nata sullo specchio d’acqua di Cartaromana, una piccola baia dell’isola d’Ischia, di fronte a Procida, Capo Miseno, e la città di Napoli, sovrastata dal Vesuvio. In quel panorama incantevole, ciascuno sulla propria barchetta, mentre le rispettive famiglie sguazzavano in acqua, discutevamo di Nietzsche e di Totò (che, fra l’altro, rappresentano due campi in cui si esplicano le competenze di Escobar). Detto dell’amicizia, da lui quasi tutto mi divide, a partire dalle città dove viviamo – per lui Milano, per me Roma – fino agli orientamenti politici (per quel che vale: lui “di sinistra”, io “di destra”). Questo spiega perché io recensisca volentieri alcuni suoi libri; qui però, prima di entrare nel merito del suo più recente lavoro, mi preme sottolineare le affinità che ci avvicinano: entrambi ci occupiamo di culture politiche (lui, nell’ambito di una carriera accademica), entrambi coltiviamo la passione per il cinema; ma, soprattutto, entrambi ci ostiniamo a credere nella funzione pubblica di chi svolge un lavoro intellettuale.
Ma andiamo a questa nuova fatica di Escobar, “Il mondo di Woody” (Il Mulino, pag. 155, Euro 14). Intanto, sbaglierebbe chi pensasse al cineasta newyorkese come a un autore di commedie, e magari come a un comico, e Escobar lo spiega fin dal titolo, che potrebbe essere la traduzione del ben più impegnativo termine tedesco weltanshauung”; ma facciamo un passo avanti: quello che l’Autore disegna con continui, meticolosi riferimenti ai vari personaggi dei film di Allen, non è solo il mondo di un protagonista dello “showbiz”, bensì quello di una cospicua parte dei nostri contemporanei (e qui sta il richiamo del libro, che va oltre i gusti e gli interessi dei fan di Allen, come noto, più numerosi in Europa che non negli USA, “et pour cause”…).
Woody Allen, che nasce da una famiglia della piccola borghesia ebraica di Brooklyn (vero nome: Allan Stewart Königsberg), rappresenta il paradigma dell’uomo d’oggi, che si sente svincolato da scuole, tradizioni, appartenenze. In Woody però questa condizione è in qualche modo nobilitata dalla continua ricerca di verità che pure nega e di equilibri che pure teme. Nell’Autore brillante, capace di folgoranti aforismi, affiorano spesso l’angoscia della solitudine, del destino individuale e della personale collocazione nel mondo – il Piano, nel lessico di alcuni suoi personaggi – e la ricerca, azzoppata da uno scetticismo di fondo, di risposte alla questione del divino e dell’aldilà.
Escobar ricostruisce il percorso artistico di Woody quasi come in una seduta psicanalitica, e sappiamo quale ruolo abbia in Allen, questa disciplina, i cui echi si avvertono in molte pellicole, specie quando viene evocata la figura materna, vissuta come nume tutelare e insieme incapacitante (si veda “Radio Days”). Escobar mette insieme sfaccettature, battute e nomi di protagonisti e comprimari delle sue pellicole, secondo un metodo in qualche modo “obbligato”, perché in tutti i personaggi è inevitabile riconoscere il loro autore, un po’ come accade per gli eteronimi di Pessoa e come diventa evidente in “Zelig”, film dove la fisionomia del mutevole protagonista viene ricondotta ad unità proprio dalla sua vocazione proteiforme, di adattamento a questo o quell’interlocutore.
Punti di riferimento di questo percorso, che si ripete quasi fosse un esistenziale “gioco dell’oca”, sono la Donna, gli anni 20 del 900 – specie in Europa – il retaggio dell’ebraismo (sovente satireggiato, ma il debito verso l’umorismo yiddish è innegabile), il rapporto con Dio e con i codici morali. Spesso poi nei film di Allen viene messa in scena l’intersezione della realtà con la finzione cinematografica (esempio tipico: “La rosa purpurea del Cairo”) e ne derivano sovrapposizioni e intrecci del comico col tragico. In questa chiave, ad esempio, viene riproposto, in più di un film, il duello bergmaniano fra il Cavaliere e la Morte, quest’ultima nelle sue varie epifanie, da quella classica della tenebrosa figura con la falce a quella dell’angelo nero a quella del mostro assassino.
Dicevamo dei lasciti della cultura yiddish, specie nella declinazione mitteleuropea: da questa derivano certi approcci all’espressionismo e al teatro dell’assurdo alla maniera di Beckett e Adamov, evidenti, ad esempio, nel più volte citato “Ombre e nebbia”, il cui protagonista, l’Ometto, si trova a combattere, in un inquietante scenario notturno, contro un misterioso assassino, ma anche contro un “comitato” di cittadini benpensanti, che lo vogliono coinvolgere in avventurosi (e avventati) progetti di caccia all’uomo.
Altro “topos” della cultura europea presente in più di un film di Allen è lo specchio, variante dello schermo cinematografico, attraversabile in un senso o nell’altro, per farsi beffe – ancora una volta – della Morte, per ottenere una vittoria sempre illusoria, come nel mito di Sisifo. Troviamo però, nel ricco baule di Woody, anche cimeli che non ci aspetteremmo: ad esempio il pessimismo hobbesiano, che fa dire a un personaggio: “Nel profondo, l’umanità non è né buona né rispettabile”; ma di Hobbes manca ogni allusione al Leviatano, perché in Woody la politica resta sullo sfondo, ed è al massimo fonte di timori, come quando viene evocata la figura del capro espiatorio, che “solleva i linciatori dalle responsabilità del mondo, dei suoi guai, del suo veleno, e regala l’ebrezza di sentirsi uniti”. In tale panorama però non manca il riferimento all’”homo homini lupus” e il tono è quello di un nichilismo utilitaristico, venato di rancore e sensibile al desiderio; caratteristiche proprie, ad esempio, di Chris, il protagonista di “Match Point”, in qualche modo imparentato con il Raskolnikov di “Delitto e castigo”. E non sono pochi i personaggi di Allen che vedono il prossimo come insetti da schiacciare, magari per raggiungere un obiettivo meschino.
In molti personaggi, come abbiamo detto, ricorre il rovello dell’esistenza o meno di Dio, ma il risultato è sempre quello di un ateismo che nasconde le sue certezze e le sue debolezze dietro ragionamenti sofisticati, che poi sfociano in battute destabilizzanti. La vita è un film, insomma, e Dio ne è lo sceneggiatore (non da tutti ritenuto all’altezza…). Tali angosciose domande e le relative risposte, ambivalenti come quelle di un oracolo, attraversano tutta la filmografia di Allen, da quella in forma di commedia a quella in forma di dramma. C’è però una costante presenza divina in quei film, ed è quella del Caso, che non si limita a fare da “deus ex machina” per risolvere situazioni complicate, ed è indifferente alla morale, al discrimine fra giusto e ingiusto.
Così, sotto la patina del nichilismo, Woody mette a nudo l’angoscia del libero arbitrio, quello che contrappone, nell’io ragionante dell’Autore, la legge di un Dio lontano e quella di un sillogismo filosofico, la vanità delle opere e, al tempo stesso, la loro importanza (anche se poi spesso, dimostrano molti suoi personaggi, è l’istinto a decidere). Anche nel suo rapporto con le donne, il Woody di Escobar oscilla fra la foga dei sentimenti e il rimpianto di non essersi assoggettato alla loro legge. Ancora una volta, in definitiva, il destino dell’artista si snoda attraverso l’infelicità (come si vide, per limitarci ad un solo esempio, nel bel film di Claude Sautet, “Un cuore in inverno”). A noi però piace ricordare il Woody che scommette con Pascal (e se Dio esistesse?) o l’altro, che, su una panchina di “Manhattan”, elenca le dieci cose per cui vale la pena di vivere e, fra queste, “il sorriso di Tracy”.