Era il 2 gennaio del 1960, quando Fausto Coppi, uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi, perdeva la vita a seguito di una febbre malarica all’età di quarant’anni, gettando nello sconforto il mondo sportivo italiano.
I suoi duelli con Bartali avevano tenuto intere generazioni di appassionati incollate alle radioline, le pagine dei giornali non facevano che parlare della rivalità che stava dominando le scene dello sport mondiale.
Bartali prima e Coppi poi, rappresentavano per un’Italia ferita dalle devastazioni della guerra e profondamente lacerata da vecchi rancori e contrapposizioni interne, una valvola di sfogo, una speranza, oltreché un modo per deporre l’ascia di guerra, in un paese esacerbato dalla guerra civile.
Il ciclismo quindi, e non il calcio, dominava l’attenzione dei mass-media: per quest’ultimo solo qualche ritaglio nei giornali, un secondo tempo di una partita di cartello della domenica e poco altro; raramente la prima pagina era occupata dal nome di una squadra, figuriamoci di un calciatore.
Ma proprio in quegli anni qualcosa stava per cambiare: il calcio, oltre che essere uno sport più semplice e immediato, nonostante gli insuccessi della Nazionale e la resistenza del ciclismo, stava prendendo sempre più piede all’interno del dibattito giornalistico.
Mentre la Nazionale bicampione del mondo negli anni ’30 ristagnava, la Serie A stava accrescendo la propria popolarità grazie a imprenditori del calibro di Umberto Agnelli e Angelo Moratti, che vedevano nella semplicità e nel fascino del gioco del calcio un potenziale che, se sfruttato, avrebbe garantito un ritorno di immagine senza precedenti per le loro aziende.
La massima serie italiana inziò così a guadagnare sempre più proseliti, grazie all’arrivo di stelle come gli svedesi Gren, Liedholm e Nordhal prima, degli argentini Sivori e Angelillo poi.
Tuttavia, la novità decisiva che riuscirà a fare del pallone il centro di gravità permanente dei pensieri della maggior parte degli italiani, il centro dei dibattiti anche televisivi, la copertina dei giornali, sarà l’intuizione di un conduttore radiofonico fino a quel momento sconosciuto al grande pubblico: Guglielmo Moretti.
Nell’immediato dopoguerra, durante un soggiorno a Parigi durato qualche anno, Moretti aveva fatto conoscenza con un mondo molto attivo e innovatore dal punto di vista radiofonico. Una trasmissione in particolare aveva attirato la sua attenzione: si chiamava Sport et Musique, una trasmissione sul campionato locale di rugby a 15. In realtà, di musica c’era ben poco, ma la cosa che veramente interessò il giovane italiano fu l’idea di trasmettere in diretta più partite in contemporanea, con interventi rapidi e incisivi dei cronisti dai vari campi.
Tornato in Italia, Moretti incomincia a lavorare in Rai, andando incontro al classico percorso di gavetta: mansioni da “galoppino”, qualche servizio mal pagato e poco margine d’azione.
Inizialmente non riesce a far sì che l’idea, che tanto lo aveva affascinato in Francia, prenda vita in patria, incontrando scarso appogio sia tra i giornalisti, che tra i tecnici radiofonici e gli ingegneri, professionisti impeccabili ma poco aperti a una novità che ritenevano tecnicamente irrealizzabile.
Finalmente nel 1959 Moretti, divenuto nel frattempo capo della redazione sportiva Rai, riesce ad iniziare le prime sperimentazioni di un nuovo programma, grazie al sostegno di Sergio Zavoli, già decano dei radiocronisti Rai e di Roberto Bortoluzzi, che ne diventerà il conduttore. Il 10 gennaio 1960 esordisce ufficialmente “Tutto il calcio minuto per minuto”.
Le partite collegate al debutto sono 5: al campo 1 Nicolò Carosio con Milan Juventus, al campo 2 Piero Pasini con Bologna-Napoli, poi Fiorentina-Sampdoria con Amerigo Gomez, Roma-Vicenza con Enrico Ameri e Genoa-Spal con Nico Sapio.
Il campo principale era stato affidato alla voce di Nicolò Carosio, proprio colui che trent’anni prima aveva introdotto in Italia la radiocronaca.
L’idea era nata da un viaggio, fatto in gioventù in Inghilterra: ascoltando la radio rimase affascinato dalle cronache delle partite, impeccabili e puntuali, della BBC. Tornato in Italia decise quindi, pur non avendo alcuna esperienza giornalistica, di presentarsi negli uffici dell’allora Eiar per presentare il proprio progetto.
Anche lui fu accolto con freddezza e con un po’ di scetticismo, che però riuscì a spazzare via in pochi minuti, con qualcosa che in Italia non si era mai sentito: simulò un immaginario derby di Torino, con tale abilità linguistica e comunicativa, da lasciare a bocca aperta l’uditorio.
Di lì a poco i Mondiali di calcio, prima in Italia e poi in Francia, in cui accompagnò passo dopo passo i sogni dei radioascoltatori, lo consegnarono al mito. Carosio fu un pioniere e un poeta, noto tuttavia anche per alcune clamorose sviste, che contribuirono a creare il suo personaggio.
Il suo posto venne nel tempo, ereditato da Ameri che, rigoroso nel metodo e con un ritmo martellante, non fece rimpiangere Carosio. Con il tono che cresceva proporzionalmente alla velocità con cui il pallone viaggiava e alla pericolosità dell’azione.
Durante una partita il radiocronista toscano era come tarantolato, non stava mai fermo e, come ricorda Riccardo Cucchi nel suo libro “Radiogol”, “trasformava la propria ansia in un racconto trascinante”.
La sua professionalità non gli impedì di compiere, con l’irriverenza di quando si è ancora ragazzi, un gesto che passò alla storia, cambiando per sempre la storia della trasmissione Rai.
Un giorno Ameri gelò gli “ingegneri”, Bortoluzzi e tutto lo studio centrale, oltre a lasciare sbigottito chi, da casa, seguiva la partita: vedendosi passare sotto il naso un gran bel gol, decise di farsi aprire il microfono per annunciarlo! E quindi, direte voi?
Aveva rotto il rigido schematismo della Rai (che prevedeva un tempo di 4 minuti per telecronista), trasportando il mondo del giornalismo sportivo verso la modernità.
Simultaneità e immediatezza, tratti che caratterizzano ancora oggi le trasmissioni sportive, furono così introdotti per la prima volta. Fu il radiocronista più amato, capace di tenere migliaia di ascoltatori con il fiato sospeso, di emozionare, pur senza essere un urlatore.
L’unico, in grado di reggere il confronto con lui fu Sandro Ciotti, con il quale nacque infatti un’accesa rivalità. Romano, classe 1928, poteva vantare oltre ad una straordinaria conoscenza del gioco, derivata anche da suoi trascorsi nelle giovanili della Lazio, un’ottima preparazione culturale. Figlioccio del poeta Trilussa, fu anch’egli, a suo modo un virtuoso, capace di incantare con la parola sul calcio, ma anche con qualsiasi argomento avesse sottomano: dal ciclismo, alla musica, all’arte, quest’ultima coltivata con grande passione.
Fu cronista musicale per Il Giornale, inviato per ben 40 Festival di Sanremo, amico di Luigi Tenco (cui dedico un documentario); scrisse canzoni per Peppino di Capri(come “Volo”) e anche la censurata e contestata “Veronica” per Jannacci.
A differenza degli altri colleghi, non aveva bisogno di prepararsi nulla di scritto, arrivava qualche minuto prima sul posto di lavoro e andava a braccio, grazie ad una memoria di ferro. La sua cronaca non aveva il ritmo forsennato di Ameri, ma riusciva comunque ad incantare gli ascoltatori, grazie ad un’abilità linguistica degna di un retore e la caratteristica voce roca, che da limite divenne invece il suo timbro, conferendo gravità e solennità al suo eloquio.
La rivalità con Ameri, temperata dal rispetto e dall’ammirazione reciproca, divenne uno dei motivi d’interesse principali del programma: come Coppi e Bartali in bici, così Ciotti e Ameri col microfono in mano.
Erano i due opposti: l’uno conservatore, sposato e con pochi fronzoli, anche se con un carattere fumantino, l’altro libertino, narcisista, che non sapeva dire di no alle sue passioni e ai suo vizi, dalle donne al fumo.
L’episodio che consegnò tale acrimonia alla storia avvenne il 27 aprile 1975. Ciotti chiese la linea ad Ameri, ma intervenne in maniera intempestiva: così quest’ultimo lo apostrofò in maniera inequivocabile, giustificando poi l’episodio con l’ingresso di un tifoso nella sua postazione, cosa che peraltro gli succedeva spesso. La verità sull’accaduto non la sapremo mai, anche se Cucchi, che dell’episodio ha conosciuto i protagonisti, testimonia che sia successo davvero.
Il programma tuttavia, non aveva come assi solo Ameri e Ciotti: tra i tanti validi radiocronisti si distingueva la splendida voce di Ferretti (figlio d’arte del grande cronista del ciclismo).
“Tutto il calcio minuto per minuto” fu negli anni ’60 e ’70 un vero e proprio rito della domenica: al centro della stanza c’era lei, la Radio, e tutto attorno ogni famiglia, con amici e parenti, attendeva con ansia l’inizio delle partite.
Era una girandola di emozioni, l’ascoltatore si preparava per una sorta di giro d’Italia, dal Meazza al Cibali ed era proprio l’assenza di immagini a rendere tutto più emozionante.
L’ascoltatore era costretto ad affidarsi, a lasciarsi prendere per mano dai cronisti che lo guidavano in questo viaggio: chiudere gli occhi e immaginare. Immaginare le condizioni del campo, i colori delle maglie, le prodezze dei propri beniamini, le nefandezze degli avversari.
Fondamentale era seguire la direzione del pallone, quando si faceva minaccioso verso la propria squadra o quando portava a mettersi le mani nei capelli per un “quasi gol”(come avrebbe detto Carosio): si immaginavano la disperazione dell’attaccante e il sospiro di sollievo del portiere.
La scuola di “Tutto il calcio” ebbe due eredi principali, gli unici della vecchia generazione in grado di sfidare il mondo televisivo, che aveva assunto ormai un’altra velocità: Riccardo Cucchi e Francesco Repice.
Le testimonianze di affetto verso Cucchi degli azzurri del 2006, ma soprattutto l’omaggio che, solo tre anni fa, i tifosi dell’Inter gli hanno tributato sono il simbolo di come un calcio spesso ridotto a puro prodotto commerciale abbia ancora bisogno di poetica genuinità e confortevole normalità, di contro agli strali iperbolici dei cronisti urlatori che affollano la chiassosa domenica sera in TV o sui social.
In un mondo calcistico in cui le notizie viaggiano alla velocità della luce e il calcio è vivisezionato con ossessione compulsiva, i radiocronisti tentano di ricomporre il tutto in un’unità integrale, sinottica: un’impresa non semplice ai tempi del cosiddetto calcio “spezzatino”.
Spegnete i dispositivi elettronici, prendete una vecchia radio, mettetela al centro della stanza, chiudete gli occhi e lasciatevi trasportare dal flusso delle parole dei cronisti. Non ve ne pentirete!
Un’altra Italia e un altro calcio