![Zingaretti, Conte premier e Di Maio](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2019/08/zingaretti-conte-di-maio-2-310x177.jpg)
Le elezioni nel loro complesso – campagne elettorali, commenti e analisi dei flussi – rappresentano anche uno strumento per tastare il polso a un popolo e verificarne movimenti carsici, tendenze di lungo periodo, umori contingenti. Le consultazioni amministrative non sfuggono alla regola, ma vi aggiungono elementi di complicazione, legati a fattori locali, quali l’operato degli amministratori uscenti, l’impegno dei leader politici, le fortune o le crisi dei partiti nazionali, le situazioni di partenza, le aspettative dei singoli elettorati, e, non di rado, gli eventi giudiziari (si veda, ad esempio, il recente “caso Umbria”).
Dopo i risultati elettorali in Emilia-Romagna e Calabria, vorremmo svolgere alcune considerazioni sparse, non già di natura “tecnico-politica”, bensì guardando proprio a quelle tendenze cui accennavamo. Cominciamo col dire che ancora una volta sono emersi due dati principali: da un lato, la spaccatura in due del paese (il che, fra l’altro, ha riproposto l’dea del bipolarismo); dall’altro, quasi ad accomunare i due blocchi, un certo spirito di conservazione degli assetti complessivi, contro il quale anche certi moti diffusi d’insofferenza della realtà politico-sociale nulla possono.
Ora, la spaccatura in due fazioni appartiene alla storia dell’Italia e, nelle più disparate declinazioni, risale almeno alla caduta dell’Impero romano e riguarda i più diversi ambiti e periodi storici, dalle lotte fra Impero e Papato fino alla guerra civile dopo la caduta del fascismo, senza dimenticare le più futili rivalità fra sostenitori di Coppi e Bartali, della Loren e della Lollobrigida. Più sfumato e meno riconoscibile è invece il dato sullo spirito di conservazione: a dispetto delle pur fondate teorie sulla “società liquida” e della corrispondente velocità di cambiamento delle preferenze per questo o quel partito o movimento, quel che emerge anche dai risultati apparentemente contrastanti in Emilia Romagna e in Calabria è appunto la paura del “nuovo”.
Nella prima di queste due regioni il dato è evidente: dalla fine della seconda guerra mondiale, infatti, è al potere e dunque alla guida della macchina amministrativa e della stessa società civile la classe politica allevata dal Partito Comunista e cresciuta nel filone di quella cultura. Ne è derivato un sistema di potere capillare, grazie soprattutto alla lega delle cooperative ed al radicamento territoriale di un ceto politico che, unitamente alle doti di quelle popolazioni, hanno prodotto risultati di eccellenza (tutte ragioni per cui il “modello Emilia-Romagna” è difficile da esportare). Insomma, il centrodestra aveva un compito arduo che è fallito, si badi bene, pur dopo il brillante e recente esito vittorioso in occasione delle elezioni europee, le cui conseguenze sono peraltro minime sugli assetti interni.
In Calabria, la paura del “nuovo” assume altre forme: ad ogni elezione cambia il vincitore, ma spesso gli amministratori, dopo aver indossato una casacca politica d’altro colore, sono gli stessi. Qui i mutamenti assomigliano a quelli invocati nel Gattopardo, sono cioè attesi, propagandati e mai attuati, affinché nulla cambi davvero. Qui perfino il mantenimento delle promesse elettorali – essenzialmente quel reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento pentastellato, nell’ottenimento del quale la Calabria detiene il primato dei beneficiari – non ha salvato dal naufragio la forza politica che quell’impegno si era assunto. E allora il continuo cambiamento che periodicamente esce dalle urne calabresi sembra il sintomo contraddittorio della speranza e del disincanto, senza contare la sfiducia verso le istituzioni – che anche stavolta si è tradotto in forte astensionismo – nonché la presenza e l’influenza della più forte e diffusa malavita organizzata, capace di condizionare non solo il voto, ma la vita economica e politica della regione.
Di passata, vale la pena di notare come da queste parti la Lega non riesca ad esprimere una classe dirigente all’altezza del compito e, soprattutto, non riesca a scrollarsi di dosso quell’aura “nordista” che di sicuro le nuocerà anche nelle prossime consultazioni in Campania e in Puglia, dove dovrà contare sui progressi o almeno sulla tenuta degli alleati Fratelli d’Italia e Forza Italia, sacrificando, specie nei confronti di quest’ultima, quei profili identitari e quelle linee di cambiamento che finora ne hanno determinato il successo sia nelle elezioni che nei sondaggi; tanto che i rischi dell’ennesima, mancata occasione di rinnovamento verranno stavolta non solo da fattori esterni, quali l’Unione Europea e i “poteri forti”, ma anche dall’ambiguo moderatismo di Forza Italia, che troppo spesso fa da rifugio ai “gattopardi” dai quali è afflitta la nostra politica.
Ora, i vincitori della “campagna d’Emilia-Romagna” agitano compiaciuti le bandiere della stabilità e delle riforme: noi ci limitiamo a ricordare che, a dispetto dei continui mutamenti di governo, la cosiddetta “prima Repubblica” di quella stabilità fu insuperabile matrice, con il binomio “DC-PCI”, rispettivamente al governo e all’opposizione, saldamente in sella per mezzo secolo. Quanto alle riforme, la nostra storia nazionale deve purtroppo registrare una catena ininterrotta di fallimenti, soprattutto per quanto concerne quelle sempre più urgenti, che investono la Carta Costituzionale (e a questo proposito, fra le motivazioni non può non esserci quello spirito di conservazione rilevato una volta di più nel nostro popolo: qui basterà ricordare la costituente “Berlusconi-D’Alema”, le rovinose modifiche del Titolo Quinto della Costituzione, le bocciature referendarie della riforma promossa dal centrodestra a guida berlusconiana e di quella elaborata da Matteo Renzi).
In tempi in cui l’esigenza di rapidità delle decisioni non solo dei privati, ma dello Stato, contrasta con le lungaggini della democrazia parlamentare, appaiono non più rinviabili profonde riforme non solo di Camera e Senato, ma della stessa suprema funzione del Capo dello Stato e della cultura che sottende tutti i meccanismi elettorali.
Al centrodestra spetta il compito di farsi promotore di tali riforme – e di tutte quelle destinate a sintonizzare la società con le esigenze dei nostri tempi: una per tutte, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese – guardando aldilà delle prossime scadenze elettorali.