L’Infinito senza farci caso è una raccolta di poesie d’amore scritte da un poeta che, in un breve saggio inserito tra le stesse pagine dichiara di non sapere cosa sia l’amore. Alla coesistenza di innamoramento e fuga, Franco Arminio – lui è il poeta, assai caro ai lettori del nostro giornale – dà il nome deforme di “intimità provvisorie”.
Ne scrive un manifesto, dove di fronte alla sgangheratezza della sessualità proposta dalla pornografia e al paradosso della censura di corpi e parole sui social, contrappone la poesia. Una poesia della quale è fine teorico, sostenitore di un linguaggio semplice e accogliente: “Molte poesie hanno un’aria ostile, come se la cordialità fosse un segno di banalità”.
Arminio vuole un amore vivo, che la poesia sa raccontare, che sia “grande umiltà e grande arroganza”. Questo amore, anzi – queste intimità provvisorie – devono essere scritte con un nuovo alfabeto sentimentale.
Nel parlare dell’amore, Arminio che scansa le banalità recalcatoidi, evoca la “dimensione locale, si svolge sempre in un luogo”. E in un luogo principalmente naturale ci si trova, nel libro. In copertina una foglia, o meglio le sue nervature.
Gli incontri raccontati nelle poesie avvengono tra alberi e rami, di un luogo che potrebbe essere ovunque. Per chi conosce il poeta, la cornice è la sua Irpinia, o anzi quel luogo descritto con gli strumenti dell’etnologo, del poeta e del geografo che lui stesso ha battezzato “paesologia”.
Per chi si avventura invece nella prima volta tra i suoi scritti è facile immaginare la propria natura a far da cornice alle poesie: un bosco appenninico o una pineta alpina (o il mare grande tutto di grano, la valle di Kore).
Nell’Infinito senza farci caso è l’indefinito a regnare da padrone. Le poesie sono brevissime, senza titolo, dalla sintassi semplice, che riesce subito a fare breccia in chi legge.
Arminio sa con maestria accostare il quotidiano in maniera insolita, creare sorprese finali, costringendo il lettore alla riflessione, alla pausa. È indefinito anche il “tu”, l’amata senza nome che sembra rimanere costante tra le pagine del libro.
La lettura dell’Infinito senza farci caso lascia, però, il lettore insoddisfatto. È un amore concreto, carnale, un amore che potrebbe essere vissuto ovunque e da chiunque, un amore la cui durata è indifferente – “per un’ora o per mezzo secolo, poco importa” – e nemmeno il comportamento degli amanti sembra avere importanza: “non siamo fatti per tradire e neppure per essere fedeli”.
Nell’addentrarsi del poeta in questo amore, nel raccontarne il vissuto sentimentale e carnale, sembra che la parola non abbia alcun effetto sul sentimento stesso. Non lo amplifica, non lo rende eterno, non lo nutre di nuova vita. Semplicemente, le parole sono “piccoli inciampi / per frenare il vento / che va via”.
Altre poesie – forse le più belle – sono quelle in cui il poeta vive la comunione con la natura. Attimi di contemplazione dove si riesce ad uscire dalla “provvisorietà” che permea tutta la raccolta. È forse un momento di esistenzialismo, nel quale siamo così radicati da credere impossibile ogni astrazione, ogni annullamento, ogni eternità.
A chi spinge in queste divagazioni, Arminio ricorda: “la poesia e l’amore / sono il nostro cadere più vero / nel mondo”
Ed è l’acuta esperienza di essere gettato nel mondo, quella che riceve il lettore.
Una bellezza che, stupendo e meravigliando, rifiuta tenacemente di farsi eterna.
Da Il Fatto quotidiano del 25 novembre 2019