C’è un quadro di Lovis Corinth, esponente dell’espressionismo tedesco, dal titolo Ecce Homo, piuttosto evocativo, adatto a riassumere l’intera cinematografia di Marco Bellocchio, il cui comune denominatore consiste nel rappresentare le lacerazioni della personalità umana ed i rivoli delle relazioni che esse conducono. Il dipinto in questione raffigura un uomo ammanettato, avvolto in un drappo rosso, con un medico alla sua destra ed un gendarme alla sinistra a fargli da guardia. tramite una curiosa associazione si possono trovare delle analogie con la sua ultima fatica.
Lo spirito del Traditore è presto servito, ultima fatica di Marco Bellocchio, recentemente rientrante nelle nominations per gli Oscar come migliore film straniero. Il regista piacentino firma un apparente biopic che tocca materiale incandescente, mai del tutto sopito, soprattutto in un periodo in cui si ritorna a parlare di ergastolo. Marco Bellocchio è noto per una cinematografia di taglio, impenitente e provocatoria attraverso la quale vuole deliberatamente ribaltare i luoghi comuni e, quella che si sarebbe definita una volta, la morale “borghese”, perché è pur sempre stato un sessantottino. Anche in questa occasione, è il caso di esplicitarlo, ci riesce. Pierfrancesco Favino presta la sua figura ad una figura scomoda, che risiede nei territori della cronaca, indigesta ma apparentemente indispensabile dal punto di vista delle procedure giudiziarie, Tommaso Buscetta. Il pentito, prima latitante ricercato dallo Stato, poi morto che cammina ricercato dalla mafia, ripudiato dalla famiglia di origine, ripudiato anche da cosa nostra perché più volte traditore della moglie (cosa che nella mentalità mafiosa rappresenta un reato). Bellocchio pone l’accento proprio sulla flebile tenuta dei rapporti appesi ad un filo anche all’interno di uno scenario macabro e criminale. Il Buscetta ritratto da Bellocchio è un criminale a metà, infedele anche ad un destino in apparenza già tracciato, infedele ai rituali, fedele, al contrario, solo a sé stesso, ai propri capricci, alle proprie sensazioni. <<L’ultima tentazione è il tradimento più grande: fare la cosa giusta per la ragione sbagliata>>, diceva Thomas S. Eliot
Bellocchio denuncia, a proprio modo. Denuncia dipingendo quadri, affreschi di vita, di volta in volta un contesto differente con diversi punti cardine che risiedono nell’attualità (film come La Cina è vicina e Sbatti il mostro in prima pagina) e, a tratti, nell’inconscio del regista (I Pugni in tasca, Nel nome del padre possono considerarsi punti di diamante). Bellocchio tratteggia una strada che non porta ad una verità assoluta ma si focalizza sulla vicenda umana del protagonista. Un ritratto che, forse come poche altre volte, costringe il regista ad estrinsecarsi dallo scenario piccolo borghese che per decenni è stato la cifra stilistica e paesaggistica delle sue opere per calarsi in un contesto decisamente hard-boiled fatto di carcere, di fughe, pentiti, processi, ricostruzioni identitarie, materiale, insomma, da caserma e da tribunale. Il Traditore non rappresenta solo un punto di svolta per il regista di Bobbio, il quale nella rielaborazione personale delle biografie di personaggi scomodi detiene una nuova carta da giocare nelle varie partite la vitalità che il cinema italiano sembra di volta in volta dimenticarsi di avere (oltre a Buscetta si è occupato anche di Mussolini con il film Vincere). Un poliziesco esistenzialista che diventa la cifra stilistica di un nuovo modo di raccontare gli spettri della storia d’Italia. Mafia, politica, malapolitica, cronaca giudiziaria si intersecano in modalità caleidoscopica per dipingere un ritratto di una persona e quindi di un personaggio, già reso mitologia. Non un film apologetico, piuttosto un biopic intimista con concetti sullo sfondo che lo attraversano come nuvole di un quadro espressionista e, senza la retorica di un certo cinema civile, pone diversi punti interrogativi circa ruoli e scenari che si sono rivelati difficili da decodificare.