Fiuggi depura, Fiuggi attualizza, Fiuggi consacra. Ma Fiuggi può anche porre le premesse della demolizione di un partito, di una leadership ritenuta inscalfibile quanto ad autorevolezza, e – soprattutto – di una comunità politica. Non è stata Fiuggi in sé, è evidente, a cancellare quella destra che oggi è ridotta alla stregua di un detrito, vittima di quella classe (non) dirigente che l’ha prima irretita con l’illusione di darle definitiva legittimazione istituzionale (e culturale), e poi calpestata, grazie a quei graduati di partito che hanno privilegiato la soddisfazione dell’ego, al lavoro – ventre a terra – per la consacrazione ultima di Alleanza Nazionale. Una creatura, il partito erede della Fiamma missina, che avrebbe resistito (e meritato di resistere) a qualsivoglia abbraccio “antipolitico”; ma ce l’avrebbe fatta se la sua dirigenza non avesse abdicato all’accomodamento culturale, alla mutazione antropologica determinata dalla nudità del suo leader, un Gianfranco Fini scopertosi incapace, e indisponibile a tirare fuori dalla faretra frecce “di destra” e quindi privo di una strategia che gli consentisse di non subire la linea del vicino, e dagli effetti della tenaglia antipolitica in cui è stata stretta dall’imprenditore anti-partito Silvio Berlusconi.
Fiuggi, allora, è responsabile della scomparsa della destra solo nella misura in cui non è stata in grado di creare un humus, un “piano del mondo”, giacché il lascito effettivo di quella stagione – valutata a 20 anni di distanza – è un cumulo di macerie venute giù in ragione della condotta di larga parte dei suoi protagonisti, troppo impegnati a sostituire la dimensione comunitaria con l’orizzonte personale.
E quindi non è un caso se i “colonnelli” sconfitti e divisi in microformazioni, tese alla conquista di ombelichi vertiginosi, intendano ripartire da un qualche aggregato che non prescinda da sé stessi; sarebbe troppo sperare che lascino spazio a una serie di giovani o meno giovani messi da parte in questi anni perché troppo capaci di elaborare giudizi autonomi, troppo vogliosi di fare politica e di non organizzare cocktail di Palazzo, troppo determinati a riaprire quegli spazi di confronto chiusi dalla subcultura dell’ossequio sistematico del capo.
La reimpostazione del dibattito, da categorie nuove in radice, sarebbe completa se alla sottolineatura della necessità di puntare su un capitale umano con questi segni, si associasse l’enfatizzazione dell’indispensabilità di ripartire marcando un’identità non nostalgica né figlia della sudditanza culturale verso certo liberal-liberismo plastificato. La destra non abbia paura, in definitiva, di scegliere lei gli ingredienti di una piattaforma che dia senso e prospettiva all’”essere destra” oggi e in questo Paese, ovvero di un manifesto che metta in discussione in chiave domestica (ma soprattutto sovranazionale) modello di sviluppo, assetto sociale, struttura delle istituzioni, governo dei rapporti tra piano nazionale ed europeo.
Queste premesse edificherebbero una destra 2.0 a tal punto certa della propria cifra, da non temere il confronto con chi, sul fronte opposto, è mosso da princìpi talvolta diversi ma complementari, talvolta perfino sovrapponibili. E una tale sicurezza di fondo dovrebbe indurre questa destra a proporre lei un’interlocuzione sistematica con quella sinistra che non intende smussare gli spigoli del mercatismo bensì privarlo degli artigli. Sarebbe di importanza imprescindibile se questo fronte socialista, radicale ma non demagogico, schierato ma non livoroso, accogliesse l’invito al tavolo giunto dalla controparte e non lo lasciasse cadere per incrostazioni ideologiche. Ciò non significherebbe invitare i due dialoganti ad annullare – sarebbe ridicolo e controproducente – i non pochi elementi di divisione, ma vorrebbe dire incoraggiare gli interlocutori a cogliere la straordinaria opportunità di parlare una lingua sola sul fronte delle politiche socio-economiche, nello stesso tempo ponendo una moratoria non ipocrita sui temi che produrrebbero scontro.
Questa direzione di marcia consentirebbe allo spazio politico annichilito dai reduci di An di rigenerare sé stesso e contestualmente la dicotomia destra-sinistra. Rappresenterebbe un’alleanza “di tattica e di visione” che sottrarrebbe argomenti di sostanza alla vasta platea di sostenitori dell’opportunità di archiviare la stessa dicotomia (perché ritenuta “vecchia” e “politicista”, in contrapposizione al “nuovo” stinto dei partiti che venerano tutti il feticcio salvifico di un governo sopranazionale, e inneggiano tutti all’obiettivo messianico dei pareggi di bilancio), in quanto si reggerebbe soltanto su ragioni di condivisione di approccio, e finalmente non di opportunità elettorale.
Senza fasci, senza falci, con dentro il meglio della propria storia e dei propri riferimenti, senza nulla annacquare. Perché la destra possa sedersi a quel tavolo con uomini e appunti sulla Moleskine di cui essere fieri. Perché la destra italiana torni a respingere la iattura del nome del capo nel simbolo di partito, giacché essa ha sempre lottato in nome di simboli, non certo per conto di padroni che pretendono troppi omaggi.
* Giornalista, tratto dal Quotidiano di Puglia