Poteva fare il prete, non il gangster come immaginano in molti, alla fine ha fatto il calciatore. Hirving Lozano è probabilmente il calciatore di maggiore talento della sua generazione, tanto che persino il raffinato scrittore messicano Juan Villoro, ai mondiali in Russia, aspettava i suoi gol – «El futbol está hecho de milagros y una vez que alguien hace un diagnóstico negativo, espera como buen aficionado que el “Chucky” Lozano meta un golazo y todo cambie» – che arrivarono: e quello alla temutissima Germania è ancora negli occhi di tutti i messicani, perché contiene una parte consistente delle caratteristiche tecniche di Lozano: grande rapidità – era un contropiede – che lui segue correndo in basso sulla sinistra mentre l’azione si sviluppa tutta in verticale dal centro alto della difesa messicana fino al centro alto di quella tedesca, e quando Javier Hernández serve finalmente Lozano – grande dribbling – che se la tocca di sinistro evitando Mesut Özil, quasi fosse un passaggio tra sé e sé – un rientro veloce che fa spesso – e poi di destro, anticipando pure il rientrante Toni Kroos, la mette con forza alle spalle di Manuel Neuer – grande tiro –, nella porta della Germania. Il resto è storia, ma non molti sanno che dietro quel gol ci sono due grandi scuole: quella dei padri maristi dell’Instituto Mexico di Colonia del Valle, quartiere di Città del Messico e quella dell’Universidad del Fútbol y Ciencias del Deporte, che poi produce le squadre per il Pachuca – in piccolo, un incrocio tra l’Ajax e la cantera del Barcellona – che prima di essere un club è un bosco, dove crescono i migliori alberi del Messico, almeno nell’immaginario del presidente Jesús Martínez – che è molto variegato come quello di un personaggio di Paco Ignacio Taibo II –, che chiama così i giovani talenti allevati, e non si preoccupa se partono per l’Europa, anzi: «Lozano è bravo, ma anche quello che verrà dopo di lui e quello che verrà dopo quello che verrà dopo di lui. Da dieci anni abbiamo un sostituto per ognuno che se ne va: noi siamo una fabbrica di calciatori». E per entrare in fabbrica, Lozano, a 11 anni, lasciò Città del Messico per Pachuca: 88 chilometri di nostalgia, sacrifici, solitudine. Poi c’è l’incontro con Enrique Meza, uno di quegli allenatori vecchio stampo che mescolano la Bibbia e il pallone, convinti che Dio stia in tribuna e mandi segni, investendoli di missioni speciali, tanto che poi si divertono a innescare colpi di scena, così la sera dell’8 Febbraio 2014 chiama dalla panchina il ragazzo che gli piace e che ha deciso che diventerà grande e lo fa esordire in prima squadra nella Liga MX all’Estadio Azteca contro il Club América. La partita era sullo zero a zero, equilibrata e sembrava destinata al pareggio, ma all’83’ il ragazzo prende il pallone sulla metà campo destra, dribbla due avversari e se ne va in porta solo, poi tira e segna. Meza, mentre tutti gli altri intorno festeggiano il gol del giovane esordiente, sorride e pensa: «Los tempos de Dios son exactos». Da allora Lozano ha sempre segnato all’esordio, dalla Nazionale messicana al PSV Eindhoven, fino al Napoli: facendone un marchio di fabbrica. È probabile che questo avvenga per una combinazione di volontà, tecnica, ricerca e tempi esatti di Dio come direbbe Meza. Lozano ha una capacità di passare dalla panchina al campo senza bisogno di cuscinetti emotivi o fisici, non deve rompere il fiato, non ha bisogno di tempo per ritrovarsi, entra e agisce, e chi ha visto la sua finta mandare a mare Matthijs de Ligt nella partita contro la Juventus, sa che non c’è bisogno di un tempo intermedio, Lozano e il campo si appartengono, per questo riesce a vagare da sinistra a destra, giocando anche a centro se serve, rimane un esitante d’aria, fondamentalmente una mezza punta, ma della punta ha la rapidità di lettura dell’azione e il tempo di intervento, in questo ricorda il falco di prateria che non a caso si chiama “Falco mexicanus”, anche se il suo soprannome è un altro: Chucky, il personaggio creato da Don Mancini per il film “La bambola assassina”, e gli è stato affibbiato perché vagava nella camerata di notte – quando era al Pachuca – spaventando i compagni, e per via di questo soprannome c’è chi dice che lui riesca a segnare quando subentra perché usa la formula voodoo recitata da Chucky: «Ade due damballa! Dammi i poteri, ti scongiuro!». Non è vero, ma è bello pensarlo, almeno per i messicani che sono molto creativi nell’autoinganno, se ne nutrono per continuare a seguire la propria nazionale, nella speranza di vedere un grande mondiale, ma oltre le fantastiche spiegazioni a supporto delle giocate di Lozano, c’è anche l’amore che gli portano per il fatto che sembra sempre che voglia mangiare il campo, “un eroe della volontà” direbbe Juan Villoro, che, però, va sempre dalla parte giusta, capitalizzando sforzi e movimenti. Rimane freddo anche dopo un campo attraversato con o senza pallone, riuscendo a sterzare o a palleggiare senza perdersi. È uno degli ultimi dribblatori senza essere dribblomaniaco, sa dire addio al pallone: il dribbling è un linguaggio che possiede e utilizza al meglio, senza mai portarlo oltre il tocco ossessivo. Sempre Enrique Meza, il suo allenatore al Pachuca, vedendolo dribblare, disse che era «guidato da una bacchetta magica», chiedete a de Ligt e Szczęsny, sono loro le ultime vittime.
Nei suoi due anni olandesi al PSV, allenato da Phillip Cocu e Mark van Bommel, ha giocato col primo sulla fascia sinistra e col secondo sulla fascia destra, nel complesso 60 partite e 34 gol. Ha anche mostrato un nervosismo con cartellini rossi al seguito che ha portato un paragone con Luis Suárez: diversi psicologi olandesi, molto politicamente corretti, c’hanno visto la stessa eversione estetico-violenta; ma se guardiamo l’evoluzione dell’uruguagio a Barcellona verrebbe da dire: magari. Lozano scioglie partite e costringe a pensare in grande, porta in campo aggressività e classe, dribbla, attacca, segna, sposta assetti tattici e rompe difese, un grande istinto offensivo supportato dal profondo della sua natura. È lo straniero che rimane tale, uno che fa pesare la sua diversità, per questo Cristiano Ronaldo è andato a dargli il benvenuto e a complimentarsi per il gol, ne ha riconosciuto la natura estranea, una fratellanza: perché un campione è sempre un altrove sconosciuto ai più. [uscito su IL MATTINO]