L’intervento. La via d’uscita per la destra non è un ritorno al ’94. Le idee evolvono…

alleanza nazionaleLe lancette politiche del centrodestra potrebbero tornare indietro. Segnando di nuovo l’ora dell’inizio del lungo ventennio berlusconiano. Il Popolo della libertà viene degradato da partito politico a cornice di un’alleanza in cui riemerge la sigla di Forza Italia come baricentro della coalizione. E la destra, quasi con un riflesso pavloviano, sembra seguire lo spartito indicato dal Cavaliere. A Lecce le tante anime di quella che fu Alleanza Nazionale provano a rimettere insieme i cocci delle numerose faide e delle laceranti divisioni che li hanno trasformati da «camerati» in nemici ed avversari. Tentano di costruire una nuova casa comune. «Se Berlusconi torna a Forza Italia noi torniamo ad An»: questo il mantra recitato da dirigenti, militanti, semplici simpatizzanti.

Ma è davvero questa la svolta di cui c’è bisogno? È veramente questo l’orizzonte che restituirà alla destra quella autorevolezza e quella centralità nel dibattito politico che ormai sembra aver perduto? La sensazione è che tutta l’operazione – tanto quella preparata dal Cavaliere quanto quella auspicata dagli ex colonnelli di Gianfranco Fini – abbia il chiarissimo sapore dell’opzione di retroguardia. Ciascuno rinchiuso nella sua antica identità, ognuno consapevole della fondamentale necessità di stringere un nuovo reciproco patto di alleanza. Eppure qualcosa in questa strategia stona. E non per le ragioni di chi contesta la nascita di una sorta di partito di «reduci e combattenti», magari messo su in fretta e furia per non scrivere la parola fine sulla carriera politica di molti di coloro i quali hanno fatto – nel bene e nel male – la storia della destra negli ultimi vent’anni.

Le crepe di questo mosaico stanno tutte nella scarsa capacità di comprendere che un ciclo storico è finito, arrivato al capolinea fisiologicamente. Che attorno a simboli ed etichette ormai usurate il mondo è cambiato, la società è mutata, i bisogni e i problemi hanno modificato il loro volto e la loro sostanza. Un quadro in cui pensare di offrire soluzioni innovative agitando antiche parole d’ordine sarebbe un errore strategico clamoroso. La fine della «guerra dei cent’anni» tra coloro i quali hanno contribuito ai successi e alle sconfitte della destra italiana è un atto meritorio, che tuttavia appartiene più al campo dei rapporti umani e della storia che a quello della politica praticata «hinc et nunc».

Le risposte che si cercano affannosamente non stanno dentro le nomeklature, le carriere, i nomi. Sono fuori, tra la gente, nelle comunità, sui territori, in mezzo ai ragazzi e alle ragazze che tra qualche decennio saranno la classe dirigente dell’Italia. È lì che bisogna rivolgere lo sguardo per provare a fornire soluzioni, a offrire vie d’uscita, a sollecitare nuove passioni civili e politiche. È lì che bisogna guardare per immaginare la Nazione del futuro, il suo modo di stare in Europa, il suo ruolo sullo scacchiere internazionale, le modalità per affrontare le drammatiche disuguaglianze sociali che la attraversano. E allo stesso tempo per capire che la vita di tutti i giorni – anche con riferimento al tema dei diritti civili – è spesso del tutto diversa dal ritratto che uomini e donne che hanno preso la loro prima tessera di partito quando il segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano era Giorgio Almirante possono farne oggi.

Questo ovviamente non significa affatto che un patrimonio valoriale vada archiviato o bruciato in una specie di furia iconoclasta. Vuol dire, al contrario, che quell’universo va attualizzato, reso più agile. E che l’unico modo per farlo è guardare avanti e non indietro.

La destra in Italia ha giocato di rimessa per troppi anni. Sarebbe tempo di invertire quella rotta, di mettere i labari e i gagliardetti nelle teche della memoria e cominciare a «sporcarsi le mani» con l’attualità. Per farlo, però, occorre una sensibilità nuova che sia coniugata con la voglia di voltare pagina andando al capitolo successivo del libro invece che tornando a quello precedente.

Da questo punto di vista «l’unione delle destre» non può essere in sé un valore, ma deve camminare sulle gambe delle idee prima ancora che degli uomini. Deve definire una traiettoria innovativa sul piano dei contenuti, cogliendo le nuove pulsioni avendo il coraggio di osare. Oggi più che mai il futuro può essere disegnato solo andando controcorrente, esprimendo un punto di vista non conforme, a volte anche pagando lo scotto del «politicamente scorretto». Non solo nel rapporto con Berlusconi – nodo senza lo scioglimento del quale ogni iniziativa correrà il serio rischio di risultare velleitaria e sterile – ma anche e soprattutto nei confronti di quella serie di «tabù» (l’Europa, il sistema delle banche e del credito, i privilegi e i soprusi, l’alta finanza e il mondo dell’impresa, i sindacati, l’identità nazionale e l’emergenza demografica, solo per fare qualche esempio) che il popolo percepisce come ostili al bene comune.

Di fronte alla crisi in cui l’Occidente si dibatte proprio le radici della destra offrono la possibilità di esprimere posizioni in linea col comune sentire della comunità nazionale. Bisogna però concepirle in modo mobile e non statico, bisogna farle evolvere anziché imbalsamarle.

La sfida sta tutta qui. Saperla affrontare nelle piazze e nelle strade, nei quartieri e nelle città significherà averne compreso la portata e l’importanza. Riuscendo finalmente a pensare la propria storia come un patrimonio al quale attingere e non come un totem da riproporre in ogni tempo e in ogni luogo.

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Paolo Ruotolo

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