Finisce con un grande silenzio, quello di Novak Đioković – oltre John Cage –, la quiete dopo aver battuto Roger Federer che dice: I’ll try to forget, cercherò di dimenticare, lui si, noi no. Abbiamo visto una lunga partita di tennis su un burrone – quasi cinque ore –, con colpi di classe e di forza, un Federer mai così feroce, e un Đoković che ha dovuto sfoggiare dei voli alla Boris Becker per affondare quello che è un sottomarino che gioca a tennis ogni volta che va sotto, che gioca in apnea, diventa imprendibile, e recupera e la rimette in gioco. Dalla sua Đoković ha il far rimbalzare la pallina prima di servire, in modo compulsivo e nervoso tanto da ricordare Robert De Niro che gira per un tempo lunghissimo il cucchiaino nella tazzina in “C’era una volta in America” di Sergio Leone, gira e rimbalza, rimbalza e gira, Đoković pensa come De Niro, cerca di capire prima di attaccare, ma dall’altra parte c’è Federer, che non si scompone, aspetta e risponde, e ogni volta che risponde passa alla storia, scrive una pagina di un romanzo postmoderno, ripescando se stesso, rigiocandosi, e stupendo. L’impressione è che Federer sia l’uomo migliore in difficoltà come nei film di Hollywood: non ha mai l’impressione che possa soccombere, anzi, che il pericolo lo corra l’altro, anche quando si è al quinto set e il vantaggio dice che sta per finire. Đoković è sempre apparso come un verso di Federer, dalla parte opposta della rete, ha tenuto prima psicologicamente – con tutta Wimbledon contro – e poi fisicamente e tecnicamente. Per questo poi, vincendo, ha scelto la sobrietà, un mutismo di rispetto enorme, nonostante sia lui il numero uno, ma dall’altra parte c’era la storia, il suo corpo, i suoi polpacci, e soprattutto le sue braccia. Dopo questa partita c’è una galleria di lungolinea da studiare, e almeno due palle corte di Federer che possono avere la cittadinanza britannica, e in un perfetto controsenso c’è una caduta di Đoković che non è mai apparso debole, nemmeno nei recuperi, mai soccombente, anzi, è stato quasi sempre davanti ma con la precarietà di chi censiva probabilmente la fine carriera di un mito, con la sua elegantissima epica che annaffiava l’erba della regina mentre continua a marciare come una legione ma con qualche acciacco, qualche distrazione, qualche cedimento, piccoli dettagli che poi venivano impacchettati e spediti al di là della rete, un problema per il tennista serbo, un peso maggiore sulle spalle, che si univa al rumoreggiare o alla gioia delle tribune. Intanto si intrecciava una delle trame tennistiche più belle di questi anni, una grande finale, che andava oltre i kolossal, con palle morbide e altre violentissime, in un continuo servi e taglia, che non annoiava, con più ritmo di Tarantino. Sembravano diretti all’inverosimile, nel fine partita mai, in un tempo dove nessuno rinuncia e le partite durano per sempre e soprattutto nessuno perde. Poi alla fine ha perso Federer – ormai un congegno teologico prima che un tennista – quasi mollando, in una resa composta, alla forza di Đoković: qualcosa a metà tra “Indiana Jones” e “Guerre Stellari”. Eppure cadendo non ha fatto rumore, come se avesse staccato la spina, e neppure Đoković ha detto nulla, dopo aver urlato più dei “Metallica” e Monica Seles. Insieme sembravano un congegno meccanico interrotto dal cambio palla, una sintesi della precisione astrale, regolata dalla delicatezza microscopica di un orologio svizzero. Đoković, l’elemento di rottura, sembrava dovesse dimostrare la sua capacità tecnica, giustificarsi per essere lì a rovinare la festa usurpando Wimbledon e la sua voglia di coccolarsi ancora Federer, quasi che perdendo se ne potesse andare. Quasi che una sconfitta potesse allontanarlo dai campi e quindi dal tennis. Lo hanno lusingato e tanto, ma non serviva. Đoković – che ha la faccia e il corpo appuntito – ha sorriso spesso all’avversione che sentiva, che poteva respirare, e non è imploso, non ha lasciato che l’epica lo schiacciasse, che la Storia lo consumasse, anche perché dopo una partita del genere in quella condizione: c’entra anche lui. Prende posto di fianco al Re, con grande merito, e ci appoggia un sorriso da clown, che ha beffato il monarca, senza irriderlo, senza umiliarlo, vincendo con meno classe ma con una tenuta maggiore, a un concorso di bellezza verrebbe sbattuto fuori, ma il tennis è anche cattiveria e lui è riuscito a minacciare e impaurire e stancare e poi battere Roger Federer. Lo aveva già fatto, ma questa vale di più, perché Federer ci arrivava da oltretennista, dopo aver battuto Nadal, in una condizione che gli permetteva di essere libero da vittoria e sconfitta, ed ha sperperato moltissimo, due match point sul suo servizio, che dimostrano il tallone dell’achilleide Federer, anche se non si è fatto sequestrare mai dalla forza di Đoković, ogni volta che è stato a un passo dal baratro, dalla caduta, misurando il vuoto, si è ripreso spazio e punti. Per questo è stata una delle partite più belle della storia del tennis, che poi diverrà pure romanzi e film, perché c’erano due tipi d’uomo, due mondi, due modi di sparare differenti: che hanno riscritto il genere western.
Bell’articolo.
Non so se dopo Federer riuscirò ancora a guardare il tennis…