Per il cinema era quello della tivù, per la tivù era troppo avanti, al punto di essere sempre contemporaneo. «Appaio ai giovani insonni che avrebbero tutto il diritto di ignorarmi». Ugo Gregoretti: regista, autore tv, pedagogo, antropologo, girava l’Italia con l’inganno al collo, quel microfono che ha fatto raccontare a moltissimi italiani passioni e illusioni. Elegante, ironico, mai sopra le righe, di una gentilezza unica che comincia nei modi e finisce – avvolgendoti – nel linguaggio, un italiano perfetto. Criticava costumi e svelava il carattere degli italiani, dai più famosi a quelli più lontani. Riuscendo a non essere mai catalogabile.
Dove passava le sue prime estati?
«La pediatria allora aveva due tendenze: il mare ricostituente e la collina rigenerante. Io preferivo il mare ma mi portavano in collina. In Abruzzo, Riofreddo, Scorrano, Arsoli, ce li siam fatti tutti questi paesini, mentre i miei cugini andavano a Santa Marinella, a Viareggio, Forte dei Marmi, con mio enorme rammarico».
E lei che faceva?
«Il poeta. Avrò avuto 12 anni, radunavo all’imbrunire intorno a una fontana: armenti, contadini e villeggianti, e leggevo loro le mie poesie. Li vessavo, costringendoli all’ascolto. È lì che credo sia cominciato tutto, con questo improvvisato teatro».
E dopo?
«Mi innamorai a Tagliacozzo, che rispetto agli altri paesi era una metropoli. Vidi questa ragazzina, bionda, bellissima. Avevo 13 anni».
E giù poesie.
«No, presi a leggere Benedetto Croce».
Che cosa?
«“Estetica come scienza dell’espressione”, mi sforzavo. Una volta, avrò avuto 16 anni, mio padre fece irruzione nella mia stanza e vide i libri di scuola sul tavolo mentre io leggevo altro in poltrona e se ne lamentò, allora alzai il libro e dissi: “Cazzo, sto leggendo Croce”».
Era posa o vera ricerca?
«Volevo essere un intellettuale di stampo napoletano. Anni dopo a Roma avrei scoperto col mio amico Nello Ajello che contava moltissimo venire da quella scuola, dall’Istituto degli studi filosofici, ma nonostante l’applicazione e le letture, mi mancava l’accento: non avevo il supporto lessicale e fonetico».
E poi che successe?
«Grazie a una formidabile raccomandazione di mio padre: entrai in Rai, dopo aver cambiato tre facoltà: architettura, giurisprudenza, lettere, e sperimentato un po’ di giornalismo. Era il ’53, c’era questo direttore Sernesi che stava traghettando l’Eiar verso la Rai. E dopo mesi da impiegato passai ai servizi giornalistici con Vittorio Veltroni – il papà di Walter – cominciando le estati di lavoro. Ho sempre lavorato. Inaugurai le trasmissioni da Napoli, allora la tivù era un affare che si fermava a Roma».
L’estate-lavoro migliore?
«Quella del ’60, in luglio, girai “La Sicilia del Gattopardo”, che rimane il mio lavoro migliore, almeno per la tivù. Vinsi il “Prix Italia” per il documentario, che allora andava sempre alla BBC, e passai da Gian Burrasca a ragazzo prodigio, e così mi fecero fare “Controfagotto”, il nome lo scelsi perché la parola era divenuta famosa per un errore a “Lascia o raddoppia” che era un programma che fermava l’Italia. Poi feci il “Circolo Pickwick” troppo avanti per gli sceneggiati in uso, anche se il “Time” mi dedicò una pagina di elogi».
Anche il suo primo film ha come tempo l’estate.
«Sì, “I nuovi angeli”. Proprio per il successo della tivù, venne da me Luigi Comencini, che oltre a fare il regista era anche produttore e mi propose di girare un film. A me parve un miracolo, allora tutti volevamo diventare registi, era il salto. Così mi licenziai dalla Rai – con drammi familiari enormi – e scommisi sul mercato».
E vinse. E tornò anche in Rai.
«Avevo bisogno di soldi, sa con cinque figli. Facevo di tutto. Ho fatto il reporter al “Cantagiro”, ricordo le sfilate sulle spider azzurrine della Fiat, tutte in fila con il nome scritto sulla carrozzeria. Mi sono divertito molto».
La ricordo cattivissimo con una madre che le mostrava il suo bambino ballerino, prima di “Bellissima” di Visconti.
«Doveva essere dalle parti di Cuneo. Facevo questi pezzi che allora venivano definiti di giornalismo satirico».
Invece era il futuro. Quel ragazzino era il padre delle ossessioni di oggi? Il suo pezzo migliore al Cantagiro?
«Sì, lo era. Quello che ancora mi fa ridere è l’intervista a Bobby Solo, lui parlava e io facevo crescere il mio interesse per la filologia romanza. Poi siamo diventati amici».
Oggi sarebbe impensabile. Ma perché preferiva agire d’estate?
«Lavoravo con la gente che trovavo in giro, e l’Italia estiva era più ricca, stava più tempo all’aperto, la gente usciva in massa e tra loro c’era un numero maggiore di stravaganti, e per me era più facile fare una congrua pesca. Ho fatto 4 anni di “Sottotraccia” sempre d’estate, per me era la stagione del fermento. Feci anche un programma che si chiamava “i R.A.S” (ridotte attitudini sociali)».
La storia più bella?
«Questa vecchia rivoluzionaria che si era dovuta ritirare in campagna, lasciando la comune che l’aveva vista guidare mille battaglie. I figli si vergognavano che alla sua età ancora avesse da battersi».
Che Italia era?
«Un paese molto più ingenuo, che si lasciava sfottere da me. Ma sotto la mia cattiveria, preziosamente celato, c’era e c’è amore. Il mio motto è: Amare vuol dire sfottere».
E che cosa unisce quelle estati passate a quelle di oggi?
«Sono unite dal desiderio di divertimento, dal sentimento del gioco. I parroci avevano un mucchio di fantasia ed erano anche più protagonisti, ricordo questo prete ad Aulla in Garfagnana che si divideva tra le messe e l’organizzazione di un torneo di morra cinese».
Una estate all’estero?
«Le racconto una storia di cui non c’è più traccia, credo che abbiano bruciato quei documentari».
Ma davvero?
«Sì, di mio son sparite molte cose anche un documentario sui profughi ungheresi. Appartengo alla stagione dove non si cacciava nessuno ma i servizi sparivano. Ho cercato e ricercato ma niente.
Che aveva fatto quella volta?
«La Rai e il Ministero degli Esteri volevano che raccontassi questa emigrazione che funzionava in Argentina e Brasile. E così io e questo operatore – un piagnone romano, dopo le racconto che successe a Rio de Janeiro – partimmo. Arrivati in Argentina a Baia Blanca mi accorsi che i tornitori, i saldatori, e il resto, erano stati istruiti per l’occasione e che in realtà uno gestiva la prostituzione, un altro faceva il prestigiatore e via così. Immagini, per me erano perfetti. Tornai, proiezione. Putiferio. Il ministro disse di non voler versare il resto dei soldi, e il mio direttore Massimo Rendina, mentre tutti stavano uscendo dalla sala, mi disse bluffando: “Lo mandiamo in onda sabato sera”. Dopo un’ora arrivò questo centauro del ministero a portare l’assegno».
Che fece sparire il documentario. E invece a Rio?
«Ero sfinito dai lamenti dell’operatore, ci portavamo dietro questo grosso registratore, gli argentini ci dicevano: “muy lindo gravador”, sì ma pesava, e poi c’era il sacco della pellicola, gravarsi anche del lamento era inammissibile. Gli dico andiamo in un bel posto, ci svaghiamo poi lavoriamo. Saliamo sul monte Pan di Zucchero, una vista bellissima. Mi volto e vedo che piange: bene, si è commosso. E chiedo: “piangi per il panorama?” E quello, asciugandosi le lacrime: “No, dottò, sto a pensà che a quest’ora mi figlio ha fatto a caca pe’ tera, e ce sta a giocà cor dito dentro”».
E morì la poesia. Si è mai pentito di qualcosa?
«Mi appaiono ricordi di cose fatte e sono incancellabili, quindi cerco di non ricordare. Penso spesso a un povero contadino al quale feci credere che a Piazza Venezia c’era ancora il Duce».
Si è mai dato un limite?
«Intervistavo gente molto fragile. Quindi avevo il senso di responsabilità e il rispetto per il prossimo, molte volte li ho fermati prima che peggiorassero la loro situazione, si aprivano in modo eccessivo».
Quale è il suo segreto?
«Il mio tasto più felice è la malinconia».
[uscito su IL MATTINO]
Vogliamo parlare del grottesco “documentario” in cui esalta i vietcong che hanno conquistato Saigon?