Per trentotto minuti è esistita una squadra sola. Il racconto di Italia-Giappone, confronto valido per il gruppo A della Confederations Cup, non può che iniziare da qui: da undici samurai scesi in campo contro altrettanti spaventapasseri bardati d’azzurro, travolti dallo tsunami nipponico. Agilità, mobilità, palleggio nello stretto, geometrie e inserimenti perfetti. Il Giappone di Zaccheroni-San ha passeggiato sul cadavere italiota capitalizzando al meglio la propria superiorità con due gol in mezz’ora (Honda e Kagawa) ed una infinità di occasioni create. Spettacolo puro.
Anche allo sguardo di uno spettatore neutrale, come le migliaia di brasiliani assiepati sugli spalti della Arena Pernambuco, un simile vorticare di maglie bianche non avrebbe potuto che produrre la scomunica dell’indifferenza. E infatti la torcida verdeoro, partita con gli occhi lucidi per Pirlo e Balotelli, inizia ad applaudire i giapponesi, a scandire gli scambi rapidi con gli “olè”, ad entusiasmarsi per ogni combinazione andata a segno. Quanto agli azzurri, piovono fischi da ogni parte perché in Brasile, dove nonostante la crescita economica è rimasto del sale in zucca a qualcuno, gli insulti arrivano se giochi male, non se perdi. E l’Italia è un pianto: la difesa imbarca acqua da tutte le parti, il centrocampo non disegna, Pirlo è l’ombra di se stesso, Buffon un pensionato (Beckenbauer dixit), Aquilani va fuori al 29′.
Come spesso accade, la fortuna aiuta gli ignavi e così, dopo quaranta minuti di oscena apatia e penosa immobilità, l’Italia accorcia le distanze con De Rossi. La katana, a questo punto, si spezza. I giapponesi si accorgono che la giustizia pallonara non è di questo mondo e si piegano sulle ginocchia. In sette minuti, all’inizio della ripresa, incassano altri due gol (complice un’autorete) e la frittata sembra fatta: 3-2 per l’Italia. Una rimonta gloriosa per il tifoso azzurro accecato dalla partigianeria, un’ingiustizia di proporzioni ciclopiche per qualunque essere umano dotato di raziocinio. I brasiliani, infatti, lungi dall’infervorarsi per l’inaspettata remuntada, tacciono, mortificati per il Giappone sull’orlo del collasso psicologico e infastiditi dalla sfacciata fortuna dell’Italia. Che, da par suo, decide bene, dopo 13 minuti di calcio appena decente, di fermarsi e ritornare a dormire, prostrata dallo sforzo eccessivo (sic).
Il Giappone, invece, ricomincia a correre e si ribella al destino già scritto. Con le residue forze ricuce il gioco, recupera e riparte, punta l’area avversaria e riprende a martellare. I brasiliani si scaldano ed anche chi vi scrive si unisce al coro, iniziando senza remore a tifare forsennatamente per i nipponici. Su punizione di Endo, Okazakisalta più in alto del metrosexual Montolivo e buca il pensionato. 3-3. Meritato premio, per questa squadra “scandalosamente” monoetnica a cui però Zaccheroni decide di aggiungere un improvviso tocco Europe: al 34′ del secondo tempo esce Maeda ed entra il centravanti Mike Havenaar, padre olandese e madre nipponica. Così commenta, sarcastico, il telecronista Rai Stefano Bizzotto:“Havenaar di giapponese ha molto poco”. Balotelli, di italiano, non ha invece assolutamente nulla, ma questo non si può dire: è fascismo, razzismo, intolleranza da trogloditi. Ce lo spiega bene l’altro commentatore, Beppe Dossena, che tira in ballo il Nostro ogni secondo. Lo incensa anche se respira. “Bene Mario”, “Ma che bravo Mario”, “Vediamo dove si è messo Mario” (su calcio d’angolo avversario!).
In questa brodaglia nauseabonda di buonismo, considerazioni sinistrate e sostegno per contratto ad una nazionale di viziati incapaci, non si riesce a trovare una buona ragione per non sostenere il Giappone. E la sorte fornisce subito un ulteriore motivo per moltiplicare lo scoramento: a quattro minuti dalla fine Marchisio regala l’assist vittoria all’altro metrosexual, il nano Giovinco, che sigla il sorpasso definitivo. 4-3 per l’Italia e buonanotte.
I giapponesi non ci credono. Alzano gli occhi al cielo, bestemmiano, imprecano. Gli italiani invece si sfregano le mani e gongolano. “Siamo una squadra che sa soffrire” constata, raggiante, il ct Prandelli, quello del codice etico che tante vittime ad hoc ha mietuto, ad iniziare da Cassano per le sue frasi sui gay. Inevitabile, d’altronde. La squadra azzurra è una specie di superspot ambulante della società multietnica, tollerante, aperta al futuro. “Scrivete pure quello che volete ma alla Confederations Cup tifate un’altra nazione. Ve lo dico con il cuore”, ha recentemente scritto Balotelli in un tweet, rispondendo alle critiche dei tifosi. Consiglio pertinente. Mercoledì sera, ne avevamo trovata una niente male.