“Nessuno era alla Marina così povero da non inviare le prime frutta e le migliori del suo orto alle capanne dei pensatori e agli eremiti dei poeti. E perciò chi si sentiva chiamato a servire allo spirito poteva vivere estraneamente alle faccende, in povertà, ma non bisognoso. Nella cordialità vicendevole tra coloro che lavoravano il campo e colui che coltivava la parola valeva quale comune ideale l’antico detto: gli dèi concedono noi il meglio senza nostro merito.” – Sulle scogliere di marmo, Ernst Jünger
Segreti e premonizioni, pratiche d’ebbrezza che celano un viatico boschivo, più attiguo ai domini di Pan che agli aperitivi all’ammasso con buffet omaggio e patatine buone per i piccioni. Birra vino grappa whisky rum vodka sambuca liquori digestivi e correzioni, pesantezze che stordiscono, fiele per maldestre fughe ctonie, manovalanza d’abbruttimento volontario. Dar colpa al fato, l’alcol è pericoloso, sono acque corrosive in alchimia, pozzi senza fondo, gioghi d’abitudini, abissi e spirali, gradazione ascendente d’auto-sabotaggio, sovente quel credersi un altro. Da ubriaco sei in paradiso e all’inferno, sei apparentemente salvo eppure nei guai, stordito e lucidissimo, preda di un complotto mondano e manovratore di universi, d’albe e tramonti dati ad intendere: cresce a dismisura il potere su una realtà sempre più evanescente, mentre evapora l’ascendente sul tangibile. Ciao ciao. A un certo punto quelli che ti circondano, amici o nemici che siano, si fanno maschere tetre, grottesche parvenze, marionette allo specchio. E tu tra loro, illuso di tirarne le fila. Il dramma d’inciampare su uno sgabello, la parola che s’incarta in caramella al palato, passo caracollante, le figure di merda d’alito. E il povero fegato? Martoriato alla veneziana, pappa per gatti e giochi d’astri. Da ciucco non puoi prendere decisioni, se non assolute e incontrovertibili, ovvero molto simili a fumisterie, inanità e acide polemiche destinate a tramutarsi in rimpianto il mattino dopo. Rimandiamo? a che serve un eccesso di gin, se non al privilegio di osservare la scena dall’alto al basso? Allucinazioni e presunzioni. Bere e fumare, perché la vita è insopportabile se presa dal verso giusto, come fossimo piante da crescere dritte, come festeggiare la ricorrenza d’un dono destinato ad altri, lo apri ed è vuoto. Confessa i tuoi problemi, mio caro. Terapia di gruppo?
Cattivo esempio, condotta biasimevole e aureole d’emicrania il giorno dopo, levandosi dal letto a mezzogiorno per ricominciare, evitando così la vendetta del Campari dandogli ragione; poi ipotesi ritiro patente, terrore di guardie ovunque, telecamere, il greve mondo delle regole e delle normative civiche: volgarità! lo Stato che preferirebbe i medicinali, le cure tracciabili, il numero verde, gli inchini alla tessera sanitaria. Giammai! Sfuggire al monitoraggio di tutte le gendarmerie, tornare pellegrini che prendono la via del bosco e del fiasco, sparire nella selva, trovare disciplina nell’ostacolo, nella benedizione del tempo avverso, del nocino nella bruma. Oppure clausura, rintanarsi tra libri dischi e scartoffie aspettando la fine del mondo, con la cantina piena, la legnaia pure e diecimila candele per far fronte all’armageddon ormai imminente. Lo senti? “La realtà è un’allucinazione provocata dall’assenza di alcol” ebbe a dire Marcello Dell’Utri, scocciato da un giornalista mentre degustava il suo meritato Negroni. Difatti col passare del tempo la pratica si fa sempre meno euforica, per lambire oscuri reami alchemici: “bibistis, et non estis inebriati”. A quel punto, alzate le mura dell’esoterico usbergo, sparite le donne (fuggite in palestra) e le occasioni mondane, ci si può occupare seriamente di botanica, di alambicchi ermetici, di polveri e bilancini e farmaceutiche perdizioni. D’altronde non è bere la rovina, bensì farlo nel teatro sbagliato. L’alcol privato delle sue scenografie sociali, dei rituali amicali, del baccanale urbano per impiegati ex renziani con la cravatta smollata sulla camicia bianca, diventa solipsismo da magi, praticantato di dosaggi, ebbro monachesimo domestico. Via della mano sinistra direbbero i dotti tradizionalisti, oppure buttandola in letteratura con William Blake: “le strade dell’eccesso portano al palazzo della saggezza”. Tant’è che non sembra più questione di gradi alcolici o di quantità, bensì d’essenze, d’erbe, d’arcani intrugli e di come farli stare bene assieme. Escludendo il prossimo.
L’Artemisia (Artemisia absinthium) ad esempio, altresì detta Assenzio Maggiore o erba santa è un filo d’Arianna prezioso in grado di guidare l’apprendista stregone – ma pure il disilluso tracannatore, spettro a sua insaputa – nei liquidi labirinti degli spiriti e dell’aqua regis, nelle oscure segrete d’abbazie certosine dove la sapienza dei monaci si fa perpetuum mobile, costanza di silenziose pratiche officinali, dopo escursioni rugiadose negli anfratti del microcosmo silvano. Farmaco e veleno intrecciati in caduceo – ovvero il bastone della sapienza di Ermes/Mercurio – cristallizzano in araldico matrimonio le polarità della conoscenza: la luce nelle tenebre, il grande nel piccolo, l’universale nella terra, il sole nella luna, il maschile nel femminile in Rebis, alfa nell’omega, bene nel male in un gioco incessante di compenetrazioni, il ricamo di due fili di seta, colori opposti sulla vita. Da ciò – contrariamente a quanto sosteneva Julius Evola, con la sua misogina e forzata gerarchizzazione “eroico-solare” – deriva la civiltà europea; dai vuoti e pieni dell’architettura sacra ai battesimi e funerali dei loro costruttori, committenti e devoti frequentatori. Da santi e demoni messi in calice d’oro, da fedeli e bestemmiatori, da contadini guardinghi e naviganti conquistatori, da devoti ed eretici, martiri e dissoluti, vergini e puttane… da aquile e serpenti, da autorità e libertà nascono le rose, i gigli bianchi e pure le verdi erbe magiche, nell’eremo della Ruta come in aion è tutto un gioco di coppe: “In fondo l’andare fuori significa un abbandono del tempo normale. Cosa che si fa più preoccupante nella misura in cui cresce la sovranità degli orologi” (Avvicinamenti, Droghe ed Ebrezza – Ernst Jünger). Così per l’appunto dell’Artemisia, sottovalutata o forse ben camuffata pianta psicomagica, nulla avente da invidiare alle esotiche beatificazioni delle foglie di marjuana. Meditazioni e riflessi. Non mi credi, ebbro viandante? dunque domandati cosa accomuna Vermouth, Assenzio, Pastis, Chartreuse e il meno noto genepì; non certo l’alcol, ottundente, aggressivo, pesantemente invasivo se preponderante nel suo infiammabile cupio dissolvi, bensì proprio la piantina degli artisti, l’ipnagogico vegetale assai utile ai poeti. Così la trovi a Firenze, a Torino, sovrastata dal Bitter e dal Gin, mascherata nel vino rosso aromatizzato per un ottimo Negroni o Boulevardier; in Francia, velata d’anice negli aperitivi marsigliesi, ricoperta d’acqua ghiacciata nell’obnubilante fiaba della fata verde parigina o secretata in pergamene, d’antiche ricette cistercensi; oppure ancora sull’arco alpino, in certe baite dove viene tramandata l’antichissima ricetta di un liquore diverso dagli altri. Allora cosa stavamo bevendo? Allora abbiamo smesso di bere, per darci al giardinaggio.
“È l’artemisia” disse Robert Jordan. La vera absinthe, come questa, contiene l’artemisia. Dicono che faccia marcire il cervello, ma io non lo credo. Fa solo deviare i pensieri. La regola è di versarci dentro lentamente l’acqua, a gocce, ma io ho versato il liquore nell’acqua” (Per chi suona la campana – Ernest Hemingway)