La condizione storica che stiamo vivendo ha involontariamente alcuni risvolti di grande portata, data la pochezza del confronto che caratterizza il dibattito e l’elaborazione ideale, ma è comunque vero che si possono constatare delle tendenze inaspettate, in controtendenza all’annunciata “fine della storia”. Come in ogni momento di transizione, non è possibile prevedere con certezza quali scenari si andranno a imporre nel futuro, ma una cosa è oramai certa: la globalizzazione produce effetti contraddittori e spesso opposti alle aspettative create dall’occidentalizzazione del mondo. Il pensiero egemone liberale, affermatosi declamando la presunta morte delle ideologie – con il dettato del “politicamente corretto”, che impone un pensiero unico conformistico – resta, non a caso, sconcertato dalla confutazione aperta della coincidenza tra la democrazia e lo stesso liberalismo.
Come noto, Viktor Orbán – primo ministro dal 2010 per più legislature consecutive, con sovrabbondanti maggioranze parlamentari e un consenso diffuso e consolidato in Ungheria (Paese membro dell’Unione Europea) – esprime apertamente la legittimità di una “democrazia illiberale”, concetto che trasversalmente anche altri elaborano, sulla scia del montante populismo – fenomeno oramai mondiale – oltre un cristallizzato posizionamento di destra e di sinistra. È d’altronde lo stesso leader del Fidesz (Unione Civica Ungherese), ad affermare senza giri di parole che «i valori della Patria e dell’identità culturale hanno la precedenza sull’identità individuale». Parole ovviamente irricevibili tanto per i tardi cantori del cosmopolitismo illuminista e del primato universale dei diritti individuali quanto per i nuovi corifei della governance tecnocratica. Di essi prendiamo – tra gli altri – l’autorevole giurista Sabino Cassese, il quale – in occasione dell’incontro politico svoltosi a Milano tra Viktor Orbán e Matteo Salvini – sulle pagine del Corriere della Sera scrive che «la democrazia non può non essere liberale», e la ragione è che «se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia sulla nave Diciotti), i diritti dei cittadini sono in pericolo» (1).
Il compendio giusnaturalista di filosofia del Diritto è sicuramente completo; Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu non potrebbe che sottoscrivere ex post le parole di Cassese, a partire dalla valenza universalistica di tale richiamo della democrazia a un canone liberale, ma in realtà proprio su questo elemento fondante della modernità notiamo una determinante contraddizione di merito. L’idea che La democrazia svanisce se diventa illiberale – come dichiara il titolo stesso dell’articolo scritto dal giudice emerito della Corte costituzionale – non può che essere un’affermazione da contestualizzare storicamente giacché, come tutti sanno, la parola e la pratica della democrazia sono nate ad Atene nel VI secolo a.C., quando il liberalismo era ben lungi dall’aver fatto la sua apparizione sul palcoscenico della storia (avvenuta a partire dal XVII secolo).
In Grecia, la democrazia era diretta (tutti i cittadini potevano prender parte all’ekklesìa o assemblea, vero organo decisionale) e a governare era il popolo, invece di eleggere gli uomini incaricati di governarlo. La democrazia è stata concepita quindi in rapporto non all’individuo, ma alla comunità organizzata, alla città (pòlis). Caratteristica principale della sua esistenza, il concetto di cittadinanza, secondo cui cittadino (polìtes) è chi appartiene a una patria, cioè a una terra e a un passato. Anche per il concetto di “libertà” vale la stessa premessa: per il Greco, è l’appartenenza a conferire la libertà, ed essere libero significa avere il diritto di partecipare alla vita politica, dunque alla vita della città. Ebbene, se la democrazia è inscindibilmente legata al concetto di libertà – e questo è legato a sua volta al concetto di appartenenza a una comunità (cittadinanza politica, quindi) – ne consegue che in una città di uomini liberi l’interesse particolare non può che sottostare all’interesse generale, cioè a quello della pòlis, e di ciò ne rimane traccia nell’insulto moderno “idiota” (idiotes), che in origine indicava per l’appunto la persona non interessata alla vita politica comunitaria.
Questo intendimento della democrazia – prima del contrattualismo di John Locke e il formalismo giuridico di Montesquieu a garanzia dei diritti individuali – si è caratterizzato in più contesti nel tempo storico. Il thingo Parlamento dei popoli scandinavi e germanici, assemblea di governo di tutti gli uomini liberi, ha svolto un ruolo decisivo nel Medio Evo sia precristiano che cristiano. Le assemblee cantonali svizzere derivano direttamente dal federalismo premoderno, così come Marsilio da Padova evoca il concetto di sovranità popolare per difendere l’autorità politica dell’Imperatore sulla Chiesa. La concordia e il consenso – non la costrizione – caratterizzano il rapporto tra governanti e governati nella concezione di Altusio (Johannes Althusius), basata sull’associazione comunitaria e sulla sussidiarietà. Questa consociatio è una struttura cooperativa di gruppi organizzati volontariamente, in cui si sviluppa la vita politica e sociale legittimando dal basso l’autorevolezza del decisore.
La democrazia, in ciò che ha di più fondamentale, si contrappone dunque direttamente alla legittimazione liberale dell’apatia politica, nella quale non si può che vedere una negazione della sovranità popolare; ma il governo democratico si dimostra incompatibile con i principi liberali in molti altri modi perchè è una forma di autorità politica e non ammette che questa venga assoggettata all’economia, né al controllo dei suoi rappresentanti. Esso fa discendere i diritti politici dalla cittadinanza e implica quindi che l’individuo si definisca prima di tutto tramite le sue appartenenze associative intermedie. Non si dà democrazia senza popolo, senza nazione e senza città, non essendo queste strutture transitorie e precarie, ma i contesti privilegiati della pratica politica. La democrazia, in ultima analisi, non è altro che la forma politica con la quale il maggior numero di persone può partecipare alla vita pubblica.
Per intendere quindi la profonda crisi della democrazia nella contemporaneità, bisogna avere ben presente la differenza fra la democrazia premoderna e quella attuale, definita comunemente liberal-democrazia. Le società occidentali, in cui essa storicamente si è affermata, sono scosse innanzitutto dalla distanza incolmabile tra le classi dirigenti e la popolazione. Le istituzioni rappresentative sono delegittimate nel senso comune, tanto che le élite tecnocratiche e intellettuali dubitano esplicitamente della rappresentabilità del popolo. L’ideale della governance, il modo cioè di rendere “non democratica la società democratica” è oramai nei fatti: senza sopprimere l’apparenza procedurale, si pratica un sistema di governo indifferente al popolo – o, se è il caso, contro – in nome di una etero-direzione transnazionale economico-finanziaria. A dimostrazione di ciò, la surreale discussione intervenuta in merito alla legittimità dell’attuale governo in carica nel nostro Paese: «Dobbiamo integrare i barbari o dobbiamo scacciarli?», così si interrogano apertamente intellettuali e accademici come Paolo Mieli, Giovanni Orsina e Angelo Panebianco, sempre sul Corriere della Sera. I barbari, ovviamente, sono i populisti che siedono oggi inaspettatamente nella “stanza dei bottoni” senza averne ottenuto il permesso dalle oligarchie. Conviene “civilizzare” i barbari, come avevano tentato di fare i Romani con Odoacre (versione Orsina) oppure scacciarli (versione Panebianco)? Metafora inquietante, commenta Mieli, per il solo fatto che la durezza dell’oggi evoca la tenebrosa epoca della caduta dell’Impero. Ma in regime democratico, inquietante per chi? Probabilmente per la comunità dei cittadini, visto che siamo di fronte all’ennesima conferma – la precedente ce l’ha fornita lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il veto anticostituzionale alla nomina politica di ministri dello stesso esecutivo – che la governance di un regime liberale non può accettare gli effetti “collaterali” della democrazia: quando il “popolo bue” esercita il suo ruolo sovrano e si esprime su questioni in cui non avrebbe la competenza, bisogna correggerne l’errore con le buone (Orsina) o con le cattive (Panebianco). Dicono insomma che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli.
Non è certo un caso che questa eterogenesi democratica dei fini liberali si sposi con l’occidentalizzazione del mondo, l’espansione anche cruenta della liberal-democrazia che caratterizza lo scenario internazionale. L’esportazione della “democrazia” e dei “diritti dell’uomo” (ai tempi del primo colonialismo si diceva della “civilizzazione” e del “progresso”) strumentalizza l’universale in funzione di meri interessi politici ed economici opportunistici, parziali. L’universalismo dell’oggi è in realtà il nazionalismo della potenza egemone mondiale. Imporre la democrazia a un popolo non può che portarlo a considerare la “democrazia” come una forma di aggressione. D’altronde, la falsa coscienza occidentale ha dato l’ultimo evidente sfoggio di sé nella unilaterale celebrazione della figura del senatore John McCain, recentemente scomparso: costui, una delle figure più attive nella destabilizzazione e promozione di aggressioni (tra le altre) in Iraq, Iran, Siria e Libia – con una scia di sangue per centinaia di migliaia di morti – è stato celebrato come campione mondiale della “guerra umanitaria” e quindi dell’egemonia mondiale statunitense cui la Provvidenza avrebbe destinato il Paese nordamericano. È proprio vero che il progressista si compra e si vende con le atrocità: nel commuoversi si sente buono e nell’indignarsi migliore, tanto che, se le atrocità non ci sono, bisogna inventarle oppure commetterle.
La liberal-democrazia subordina la società alla realizzazione edonistica dell’individuo, che degenera la libertà in liceità, un “dispotismo dolce” – per dirla con Alexis de Tocqueville – che si installa al di sopra della folla solitaria di uomini simili plagiati nell’ortodossia del “politicamente corretto”, mentre lo scopo della democrazia classica è il bene comune, ove la persona svolge il proprio fine (telos), la vita buona che si riconosce nella comunità di cui è parte. Nello Stato democratico è il popolo a essere sovrano. Altra cosa avviene nello Stato liberale, in cui sovrano diventa il numero a profitto. La modernità pone il limite della libertà soggettiva dove comincia quella dell’altro, mentre l’appartenenza comunitaria ti pone in obbligo verso gli altri, ragione per cui la libertà è intesa come responsabilità, che si fa disinteressato dovere civico. Il liberalismo, per vizi privati e pubbliche virtù, promuove la realizzazione della ricchezza individuale come emancipazione del singolo da ogni misura e norma etica, mentre la democrazia degli antichi mira a evitare che il Re diventi un tiranno, che il singolo diventi un despota in sé e per gli altri, considerandoli uno strumento del suo utile e degradando la potenza di sé alla “volontà di potenza” su una realtà reificata e quindi annichilita.
Alla luce di tutto ciò, in presenza del declino della vita associata e della giustizia sociale dovuta alla sussunzione nella forma capitale di ogni intendimento e azione individuale e collettiva, è legittimo immaginare – in controtendenza – una democrazia olistica, in cui il criterio dell’agire politico sia rappresentato non dall’espansione dei diritti individuali, ma dalla promozione e dalla difesa della comunità nazionale, territoriale, religiosa, familiare? Sì, possiamo immaginarla, anzi dobbiamo, se preserviamo ancora il rispetto di noi stessi e una considerazione della dignità umana non degradata a mere pulsioni mercificate. Come ben coglie Rodolfo Casadei, il liberalismo, avendo relativizzato, e infine disarticolato, con successo tutte le forme di appartenenza collettiva della persona – famiglia, comunità territoriale, affiliazione religiosa, patria – può portare avanti con successo il programma di ingegneria sociale totalizzante, incentrato sull’individuo: «Autodeterminazione è la parola d’ordine delle liberal-democrazie; tutte le discussioni politiche, culturali e giuridiche hanno luogo a partire dal presupposto che la volontà autonoma dell’individuo è il criterio da rispettare e valorizzare» (2).
Le critiche liberali portate al governo magiaro di Viktor Orbán sono intellettualmente oneste, o invece rispondono alla mistificazione ideologica? Le sanzioni contro l’Ungheria votate dal Parlamento Europeo aprono una prospettiva inquietante sul rapporto tra volontà popolare e ordinamenti sovranazionali. Sappiamo che le principali accuse mosse da una parte politica riguardano le iniziative nel campo dei media, l’uso improprio dei fondi europei, le presunte violazioni della libertà di associazione, la corruzione, il “condizionamento” nell’apparato giudiziario, il mancato rispetto dei «diritti fondamentali di migranti, richiedenti asilo e rifugiati». In realtà, all’oggi in Ungheria, la libertà di parola, di stampa e di associazione è pienamente vigente. L’influenza sui mezzi di comunicazione ufficiali (ma non elettronici), non è certo superiore a quella esercitata in qualsiasi Paese della Unione Europea da una forza politica maggioritaria; anzi, se facessimo una attenta comparazione con l’Italia, probabilmente avremmo esiti assai poco scontati sull’unilateralità dell’informazione. In merito al potere legislativo, tutte le costituzioni democratiche prevedono la possibilità di essere modificate, in nome del Popolo sovrano che ne legittima lo statuto. Opportuna sembra solo la attenzione sulla indipendenza dell’ordine giudiziario; in realtà, senza entrare in merito alle accuse specifiche molto labili, anche in questo ambito, la minaccia allo stato di diritto non è certo appannaggio esclusivo di governi politici plebiscitari. Chiunque sia in buona fede è consapevole che l’esempio di una giustizia il più delle volte negata è proprio il nostro Paese, in cui la legge la si applica al “nemico”, mentre la si interpreta per l'”amico”. In generale i giuristi, a livello internazionale, tendono sempre di più a sostituirsi ai rappresentanti del popolo, persino come creatori di leggi, che non andrebbero applicate né alla lettera né secondo lo spirito di chi le ha emanate, bensì reinterpretate alla luce della misoginia morale dei giudicanti. Ora, che cosa dovrebbe rendere un giudice – funzionario non eletto – autorevole interprete della società? Nulla, perché la volontà popolare si esprime in democrazia tramite la partecipazione e il consenso politico. La deriva tecnocratica, quindi, comprende l’autoreferenzialità dell’ordine giudiziario, che travalica il suo ruolo e si pone come élite dominante sul popolo, anziché servirlo.
Nonostante questa deriva, il primato del comunitario non deve comunque insidiare le libertà personali, compresa la volontaria adesione a un contesto politico e sociale, pena la negazione della giustizia come valore universale, in una deriva autoritaria del potere costituito. Il superamento del paradigma individualista con il paradigma comunitario non legittima alcun sistema politico nel venire meno al rispetto della dignità e della natura umana, cosa che invece sta accadendo con il vero e proprio mutamento antropologico prodotto dalla civilizzazione tecnomorfa e dal dominio totalizzante del materialismo pratico e del riduzionismo tecno-scientifico. È evidente che la demagogia degli “esperti” ha sostituito il dogmatismo confessionale o ideologico con una altrettanto dogmatica fede acritica nella tecnoscienza, tra l’altro nulla di più lontano dall’autentico spirito scientifico, che è assai incline alla problematizzazione e al senso di provvisorietà dei risultati. L’individuo mutante post-umano che si prefigura in questo presente distopico non sarebbe possibile, all’oggi, senza la premessa filosofica liberale per cui il soggetto ha il diritto a perseguire la propria massima felicità senza limiti e pregiudizio per gli altri, la natura e l’Essere. L’antropologia individualistica e utilitaristica è insofferente alla natura e il senso comune della realtà, infervorata da una tensione titanica all’illimitato, nega la forma e la sacralità del vivente, generando sistemi economici, politici e giuridici destinati a una catastrofe ecologica e a contraddizioni sociali irrisolvibili, nella presunzione irresponsabile dell’affidarsi alla tecnica, per risolvere i problemi che la tecnica stessa crea.
I giornalisti e gli intellettuali neoliberali sono talmente unilaterali da non comprendere che la demonizzazione pregiudiziale del populismo ne alimenta la diffusione. La natura del capitalismo contemporaneo appare “di destra” in campo economico (emancipazione assoluta della logica del profitto), “di centro” in ambito politico (nel senso che vengono mantenute le forme istituite dell’esistente) e “di sinistra” in campo culturale (il costume dominante è quello del progresso e dell’individualismo “politicamente corretto”). Il ribaltamento di tale triade dominante nel senso comune diffuso lo colse per tempo con efficacia il sociologo americano Daniel Bell nel suo Le contraddizioni culturali del capitalismo, quando scrisse di ritenersi socialista in economia, libero nel campo della politica, conservatore nel campo della cultura. La manipolazione dell’opinione pubblica ha d’altronde raggiunto un tale livello, che si invera nel suo opposto, anche perché a furia di manipolare e di mistificare induce chi manipola e mistifica a credere che l’immagine distorta della realtà sia il mondo reale.
Quali sono, quindi, le tendenze da porre effettivamente a discrimine delle politiche sovraniste? In primis, la subalternità al paradigma occidentale dominante. L’Europa oggi “paga” la sua incapacità di smarcarsi dagli Stati Uniti dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, la scelta di tornare al capitalismo predatore e di mettere gli Stati al servizio dei “mercati”. È indispensabile quindi individuare delle procedure qualitative e non meramente quantitative di consenso, riattivare la partecipazione dal basso – attraverso i corpi intermedi, le associazioni, i municipi e le assemblee regionali – e valorizzare il vissuto, il locale e il territoriale nella sostenibilità e nella resilienza, ma in un respiro di grande spazio continentale autosufficiente e multilaterale. A tale fine, gli strumenti concreti sono le autonomie locali reali, la sussidiarietà, l’istituto referendario propositivo; in una parola, va sancita la priorità della partecipazione rispetto alla delega e alla rappresentanza. Appartenenza, socializzazione, reciprocità, partecipazione sono i caratteri di fondo della «democrazia organica», per dirla con Alain de Benoist (3).
Per partecipare, è indispensabile riconoscersi nel contesto in cui l’interazione avviene; di conseguenza, risulta essenziale ricostruire la comunità, nella quale il bene comune non è subalterno a quello individuale e anzi l’individuo assume coscienza di sé proprio perché appartiene a una identità culturale collettiva. In una società in cui l’idea di Patria sia volontaristica, disinteressata e inclusiva, la solidarietà non decade in un astratto umanitarismo moralistico (e nelle sue ingerenze internazionali), ma si esprime in un “comune sentire” e si incarna politicamente nella giustizia sociale e nell’autodeterminazione dei Popoli. (da Diorama Letterario)
Note
1) “La democrazia svanisce se diventa illiberale”, Corriere della Sera, 29 agosto 2018.
2) “È possibile una democrazia illiberale?”, Tempi, 31 agosto 2018.
3) Alain de Benoist, Democrazia il problema, Pagine editore, 2017.
Non sono d’accordo. La legittimità della democrazia, ma non solo, anche di certe esperienze autoritarie dopo fasi caotiche o di gran inestabilità, risiede proprio nell’adesione di fondo(certo, con gradi diversi) ad una credo liberale, ad un economia di mercato, oggi come ai tempi di Montesquieu… Altrimenti è marxismo-leninismo…
È difficile pensare ad uno “Stato di diritto” senza associarlo ad una delle successive reincarnazioni del liberalismo, dal preliberalismo aristocratico del duca di Saint-Simon e Fénelon, precettore del Delfino, a cavallo tra 6 e ‘700 in poi… Anche Gentile era liberale…
Esiste una democrazia antica, forse autentica ed organica, per la polis greca o i cantoni montani di Uri, Schwyz ed Unterwalden ed una più o meno possibile per le grandi aggregazioni che per forza si basa sul principio della delega, della rappresentanza imperfetta…altrimenti è un’adesione emotiva, non política, ad una leadership carismatica, ad un caudillo…
Zarelli è certo intelligente e colto. Purtroppo si è collocato in un cul-de-sac irreale, funesto, antesignano di scenari post-apocalittici, quello della “decrescita, comunitarismo, bioregionalismo (?)”. Nella migliore delle ipotesi fantasie totalmente slegate dal mondo odierno e dai bisogni reali…
Decrescita? In un mondo inevitabilmente ignorante, sporco, accattone non ci voglio proprio stare….
Nella democrazia illiberale si ha la compressione dei diritti. Trasforma lo “Stato di Diritto” in “Stato di Polizia” nel primo si gestisce nel secondo si impone e dove non riesce si incarognisce, vedi i decreti sicurezza uno, due, due bis e poi saranno ter quater ecc.. E’ un esempio in piccolo di ciò che è ancora incatenato dalla resistenza degli ultimi anelli della democrazia liberale, che è criticabile non per il laisser faire(non solo economia) ma per essersi inceppato. Ciò che si è inceppato si aggiusta, si sostituisce non si distrugge. Non si distrugge ciò che sta innanzi e ciò che procede per incapacità di comprendere i primi e ignorare i secondi, salvo infecondo egocentrismo. Ea Ea alalà
Non esiste alcuna forma di Democrazia o di Stato Rappresentativo che non sia in qualche modo “liberale”. Lo erano, certo a modo loro, anche la Germania del Kaiser e l’Austra-Ungheria di Cecco Beppe. Una democrazia, anzi uno Stato di Diritto, possono essere autoritari, ma non rinunciare al libero mercato, e non solo. La Cina? Non è né una democrazia, né uno stato liberale, ma solo un regime a capitalismo di Stato… Non si è inceppato in Italia lo Stato Liberale, anche perchè è finito nel 1924 e non è mai più rinato…Chi lo aggiusta?