Traduttore, curatore e consulente editoriale, Jacopo De Michelis ha insegnato narratologia presso la Naba di Milano. Ma è soprattutto coordinatore della narrativa di Marsilio, storica casa editrice di Venezia, nata nel ’61 in onore del filosofo e giurista ghibellino Marsilio da Padova da un gruppo di ex studenti dell’Università per alimentare il dibattito culturale e politico nell’Italia delle riforme e delle rivoluzioni imminenti. Da quegli anni le cose sono molto cambiate: la vita quotidiana, la famiglia, la politica, i giovani, la scuola. Il libro, che di giorno in giorno subisce la concorrenza di cento nuove applicazioni e mezzi digitali per informare, comunicare, divertire e distrarre, il libro, a suo modo, è rimasto se stesso. Raccontare è un piacere antico, ma potrebbe diventare raro. In che modo, in un mondo sempre più impalpabile e irrefrenabile, sempre meno in sé e sempre più sul cloud, la scuola può dare radici alle passioni, nutrimento ai talenti, ed essere alleata di chi fa cultura, aprendo mondi sull’intemporale della letteratura?
La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?
“Per quanto riguarda specificamente il nostro campo, cioè quello dell’editoria libraria e quindi delle competenze e attitudini di lettura, la scuola non fa probabilmente abbastanza. Ci capita spesso di osservare delle statistiche sulle abitudini di lettura, da cui si rileva che mentre i bambini e ragazzini più piccoli si dedicano ancora abbastanza ai libri, c’è una sorta di crollo dell’indice di lettura nell’età corrispondente alla scuola superiore, che poi in parte viene recuperato e in parte no. La mia impressione è che ancora oggi, nella scuola, la lettura venga intesa e veicolata come un dovere e uno strumento per apprendere nozioni, non come piacere, arricchimento personale, metodo di approfondimento. Non c’è in modo sistematico un’educazione o un lavoro di incoraggiamento in questo senso. Lo studente legge per studiare. È quindi difficile che in questo contesto si crei e alimenti un amore per i libri. Di solito è un percorso esterno alla scuola quello che porta alcuni giovani a diventare degli appassionati lettori”.
Che cosa cambierebbe?
“Conosco alcuni insegnanti che cercano di fare un buon lavoro per ovviare al problema. Accompagnano il programma regolare di studio con iniziative più mirate a sviluppare un’attitudine personale – dando per esempio agli studenti, a inizio anno, un elenco di libri da leggere, tra cui scegliere i preferiti, ciascuno in base ai propri gusti, per poi discuterne e creare occasioni di approfondimento.
Come editori, constatiamo spesso che c’è una forte separazione tra noi e il mondo della scuola. Sarebbe interessante lavorare di più perché editori e autori entrassero nelle scuole, parlassero agli studenti, li incontrassero, tenessero piccoli corsi e approfondimenti”.
Come potrebbe una buona scuola favorire l’inserimento nel mondo del lavoro?
“È un tema sicuramente interessante. Da questo punto di vista, qualcosa è già in atto: a noi capita abbastanza regolarmente, negli ultimi anni, di ospitare per brevi periodi degli studenti in occasione dell’alternanza scuola-lavoro. È una buona occasione per cominciare a masticare il mestiere. Considerando comunque che l’editoria è un mondo particolare, e lavorare in questo settore è molto difficile: si tratta di una professione a cui ci si dedica per passione più che per ambizione di guadagno o carriera”.
L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?
“Da profano e da genitore (mio figlio fa le scuole medie), a parte una serie di materie e nozioni indispensabili, trovo positivo introdurre una porzione di programma personalizzabile, per cui l’alunno possa scegliere tra varie opzioni di studio, in modo da approfondire i temi e percorsi che gli sono più congeniali.
Nei primi anni di scuola, dev’essere preponderante trasmettere a tutti le nozioni di base, ma in un secondo momento è prezioso tenere conto delle specificità dei ragazzi e aiutarli a coltivare talenti e inclinazioni specifici. Sono fondamentali la personalità e la qualità del singolo docente. Anche con programmi insufficienti o mal bilanciati, un bravo professore riesce ad avere un impatto indiscutibile. Mi è capitato recentemente di rivedere l’Attimo fuggente. Ecco, il tipo di professore alla John Keating è l’eccezione e non di certo la regola, ma rimane un esempio splendido a cui ispirarsi”.
È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?
“È probabilmente vero. Però rispetto a uno stupido non istruito ha sempre per l’appunto il piccolo vantaggio di poter esercitare la sua stupidità in un campo più ampio. Un giovane capace di leggere un testo, di ricavarne insegnamenti e delle nozioni, di avere una comprensione più profonda della lingua e una migliore capacità di usarla possiederà qualche strumento in più per muoversi nella vita”.