Gian Mario Villalta, friulano, è nato nel 1959 e dal 1984 insegna al Liceo Scientifico “Ettore Majorana” di Pordenone. È poeta, autore di racconti, romanzi e opere saggistiche. Dal 2002 è direttore artistico del festival letterario Pordenonelegge, uno degli appuntamenti culturali più rilevanti d’Italia. Dal 2013 presiede anche la giuria del Premio Castello di Villalta Poesia, per la diffusione e la riflessione sulla cultura poetica italiana.
Le parole di Villalta sono affezionate alla sua terra: in versi o prosa, si propongono di mostrare la vita, la bellezza, la forza sotterranea, i sentimenti rinchiusi e gli sconcerti di quel Friuli troppo poco conosciuto.
I suoi ultimi libri sono L’isola senza memoria, Laterza, 2018, in cui racconta la vicenda, a lungo taciuta, degli oppositori di Tito deportati nell’isola di Goli Otok, in Croazia (trentamila detenuti politici e quattromila morti per torture o pestaggi), e Bestia da latte, SEM, 2018: qui le parole sono per descrivere gli anni del passaggio dal Friuli contadino al Friuli industriale, la violenza intima, plumbea, che scorre nelle vene del popolo, e la fatica di crescere soli, troppo soli.
La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?
“Una diffusa zona grigia confonde le differenze tra formazione e professionalizzazione, mentre con il termine competenze si immagina di risolvere la questione (e invece aumenta il grigiore). Dall’antichità la scuola è in crisi rispetto alle necessità del suo tempo, e non potrebbe essere diversamente. La questione è un’altra: se questa crisi è viva, attiva, o se invece si cerca di sterilizzarla, in qualche modo, puntando sulle procedure e sull’aumento di informazione mediante la proliferazione delle discipline.
Per riformare i programmi, sarebbe necessaria un’idea di scuola diversa, non la convinzione di procedere mettendo una pezza dopo l’altra con l’alibi di un aggiornamento capace di rincorrere il futuro. E quest’idea non c’è, mi pare.
Potrebbe rappresentare un buon inizio trasformare la scuola-caserma delle 5 o 6 ore su uno stesso banco, nell’avvicendarsi incalzante delle lezioni, in qualcosa di diverso sul piano delle scelte personali e del coinvolgimento. Ma appena ci si pensa, subito lo stato dell’edilizia scolastica mortifica ogni ipotesi. E poi come fare, quando un serio progetto in questa direzione comporterebbe formare una nuova generazione di insegnanti motivati e non, invece, sistemare in qualche modo dei laureati con un “posto” pubblico? Ancora: tutto dovrebbe avere inizio dalle università… vogliamo proprio continuare? Stiamo parlando di investimenti economici e morali che vanno in altra direzione rispetto ai tagli continui sui fondi disponibili e alla progressiva impiegatizzazione dei docenti”.
Che cosa cambierebbe, che cosa toglierebbe, che cosa introdurrebbe?
“Non è una domanda, è la richiesta di un piano generale dell’istruzione pubblica. Visto che non si può che accettare la sfida con ironia, proporrei prima di tutto una ristrutturazione dell’intero cursus studiorum. La scuola media unificata è stata uno strumento utilissimo per decenni, ma da tempo è obsoleta. Tre cicli: dai 6 ai 9 anni, dai 10 ai 12, dai 13 ai 17 (3+3+6), si finisce un anno prima, e le superiori possono programmare dei semestri propedeutici.
Insegnamento della religione integrato con la cultura storico-umanistica. Educazione fisica collegata con centri sportivi e medici esterni per diventare salute, dietetica e comportamento, seguendo le attività che i bambini e i ragazzi seguono per inclinazione. Separerei lo studio della storia delle discipline umanistiche dall’esperienza letteraria, artistica, cinematografica, comunicativa che affiderei a persone che la praticano con qualche buon risultato. Per la cultura scientifica, per cominciare abolirei la separazione con la filosofia e la cultura umanistica, dando spazio alla capacità dei docenti di raccontare le loro discipline, nel loro sviluppo, in relazione al progresso dei saperi e alle relative conseguenze. Amplificherei le possibilità di comprendere e praticare le differenze tra scienza e tecnologia”.
Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?
“Da quanto detto sopra si potrebbe evincere che una scuola che dialoga realmente con il mondo circostante – non che fa per obbligo delle ore di permanenza in qualche luogo di lavoro (o delle conferenze sul lavoro) – rende più fluida la scelta di un percorso di formazione, che prevedrà nelle scuole superiori e nell’università un indirizzo professionalizzante più aperto e allo stesso tempo più adatto a integrarsi con un mondo del lavoro che non è più trovare un posto o fare una professione, ma far parte di un progetto”.
È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?
“Aprire la mente è importante, ma non avviene solo trasferendo concetti, anzi, c’è da dubitare che chi insiste troppo a dirti che “Devi pensare con la tua testa!” voglia a tutti i costi farti pensare quello che pensa la sua. Allora in ogni ambito sarebbe necessario che si proponessero delle pratiche in cui vi fosse un aspetto operativo assunto e fatto proprio dai partecipanti. I problemi sono due: il primo riguarda il legame tra struttura dei programmi e incalzare orario delle discipline (si veda la prima risposta); il secondo riguarda il tema dell’esercizio. L’esercizio proposto a scuola è sempre più meccanico, falsamente creativo e meno impegnativo, pensando così di liberare il peso della costrizione e dare spazio alla soggettività. Al contrario, la ripetizione, l’imitazione, la correzione ripetuta di una procedura sono necessari alla formazione così come all’assunzione di concrete abilità”.
L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?
“Per logica conseguenza rispetto alle risposte precedenti, potrei dire che si dovrebbero trasformare i punti interrogativi di questa domanda in punti esclamativi. Però, per lo stesso motivo, di una cosa non c’è proprio bisogno: continuare con il giochino “Togli un’ora, aggiungi un’ora” che è diventato prassi ridicola. Queste ipotesi hanno senso soltanto riprogettando, per una nuova generazione di docenti, la scuola. Significherebbe metterci otto anni? Bene. E intanto si guidano all’uscita gli insegnanti a fine carriera e si formano quelli già in ruolo che dovranno gestire il cambiamento”.
Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?
“Anche per questa domanda, trasformerei il dubbio in certezza. Ma anche questa volta ripeterei l’antifona: non aggiungendo ore, offrendo corsi, moltiplicando i desiderata occasionali delle famiglie. A questo proposito, si noti che non ho neppure menzionato, nella risposta precedente, le famiglie, per le quali sarebbe da fare un discorso a parte. Lo accenno: nell’attualità dei tutorial e dei desideri senza oggetto, la presunzione delle famiglie per quanto riguarda la loro maggior competenza nei confronti degli insegnanti e anzi la sfiducia verso questi ultimi è diventata micidiale. Gli studenti non sono stupidi, quasi mai. E a quell’età spesso hanno un’esigenza etica più forte dei genitori: come può fare il suo lavoro un insegnante che per i genitori è proverbialmente un imbecille (altrimenti non avrebbe fatto l’insegnante ma sarebbe a L’isola dei famosi)? Espongo, come si comprende, la cosa con ironia, per non scavare più a fondo”.
È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?
“Non mi ricordo di aver incontrato (quasi) mai degli stupidi tra i miei alunni in trentasei anni di insegnamento. Sarà perché gli stupidi erano un tempo il frutto di qualcosa che riassumerei come insufficienti o mancate cure parentali. Forse in determinati contesti, che non sono quelli della mia esperienza, la realtà delle cure parentali e dell’ambiente è ancora problematica. Ma il buon insegnante – lo diceva già Quintiliano – come il buon genitore deve partire sempre in ogni caso dal volere il meglio per la formazione del bambino e del ragazzo, e portarlo al grado più alto di riuscita. Per questo, quando parlavo di integrazione tra scuola e ambiente sociale, compreso quello che comporta delle forme di operatività, intendevo puntare molto sulla relazione, sulla progettazione e sulla cooperazione. Lo stupido istruito ha campo vasto per praticare la sua stupidità se viene lasciato da solo”.
In questa intervista ho letto cose più sensate e interessanti rispetto a quelle precedenti.