L’epopea della destra che proiettava la sua storia verso il governo del territorio, poi il governo della Nazione, ha avuto il volto di Gianfranco Fini candidato sindaco a Roma (e con lui di Alessandra Mussolini candidata a Napoli) e di Nello Musumeci, eletto presidente della provincia di Catania.
Correva l’anno – direbbe Paolo Mieli – 1993 e, poi, il 1994. Era il tempo in cui crollavano assieme alle macerie del muro di Berlino i partiti della prima Repubblica. Era il tempo in cui i cittadini, in piazza, protestavano contro il latrocinio dei Palazzi. Era il tempo in cui si piangevano i morti delle stragi di mafia, in testa Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era il tempo in cui i cittadini avevano ottenuto con il voto referendario il diritto a una nuova legge elettorale, per decidere chi governa tra due schieramenti. Era il tempo in cui si diceva che dopo i sindaci eletti direttamente dal popolo, sarebbe arrivato il presidenzialismo. Era il tempo in cui il trenta percento lo prendevano quelli che erano stati tenuti fuori da tutto, mentre gli altri andavano dentro; infatti, era il tempo in cui gli scandali e le manette colpivano i socialisti e i democristiani (salvati i comunisti, ieri come adesso…). Era, insomma, il tempo in cui si chiedeva il cambiamento e il cambiamento eravamo noi!
E oggi? Nel mezzo di questi venti anni, quelli che hanno trasformato la Destra politica dalla speranza del cambiamento all’oggetto del cambiamento, c’è il fallimento, misero e senza appello, di una classe dirigente che doveva trasformare il potere in governo e che, invece, ha trasformato la militanza in ricerca del potere.
Non ci interessa, in queste brevi considerazioni, fare le differenze – che pure, com’è ovvio, ci sono – tra chi nel tempo ha conseguito i migliori successi e chi, invece, ha determinato gli errori più nefasti. Non conta chi ha compreso prima l’andazzo e chi, invece, lo ha fatto dopo. E non ci interessa neppure indicare la purezza d’animo di ha scelto di combattere contro i mulini a vento e di chi, invece, ha riscoperto recentissimamente la purezza delle proprie convinzioni giovanili.
Ci interessa molto, invece, comprendere se vi siano reali volontà per tentare di mettere in cantiere un progetto nuovo che consenta alla destra diffusa di tornare ad essere Destra politica e di compiere un percorso nuovo tenendo a mente gli errori e gli orrori di questi venti anni di prostituzione berlusconiana.
Azzardiamo un decalogo che offriamo al giudizio di quanti, in queste ore riflettono molto sul futuro (e poco sul passato).
1) Unirsi si, ma senza modelli trapassati. Il Msi non torna, per ragioni storiche e politiche. An non può tornare, per ragioni politiche e di cronaca (giudiziaria).
2) C’è stato Gianfranco, il capo. C’è stato e non ci sarà più lui. Ma accanto a lui ci sono stati tutti. Quindi occupino la seconda fila, che la prima non può essere più la loro.
3) Non è tempo di settarismo e, quindi, neppure di sette. I colli romani sono un riferimento storico (quindi morale) per la capitale. Questo il loro ruolo.
4) Guai a prospettare una ridotta missina o peggio un modello-partito ancorato a simboli del passato. Si guardi al futuro, che non c’è spazio per nostalgismi.
5) Ripartire dal territorio e da chi ha mostrato di avere consenso. Non si emargini chi ha un proprio elettorato. Non conta per forza l’età. Conta il consenso.
6) Nessuno pensi di avere la bacchetta magica o di potere fare a meno degli altri. Si metta da parte ogni odio passato. Tutti insieme si può e si deve ripartire.
7) Serve un progetto culturale, perché su quello si è fallito. Un progetto culturale opposto a “veline in Rai” e “caccia chi pensa”.
Costruire sulla sovranità la parola chiave della Destra che dovrà esserci. È la sintesi di una concezione spirituale e politica. Vale più di un manifesto.
9) Non si ragioni più nella logica del potere e delle clientele. I giovani tornino alla militanza e abbandonino il carrierismo spicciolo. Valori, non voleri.
10) Sia la comunità il luogo della politica. Sociali perché popolari. Popolari perché consapevoli. Consapevoli perché tesi al cambiamento.
I punti che precedono considerateli come appunti aperti, da integrare e se necessario sostituire. Ma se nel 1993-1994 fummo noi la ragione del cambiamento (che nessuno se non il popolo italiano sdoganò la Destra, men che meno Silvio Berlusconi che arrivò dopo quei risultati) e oggi siamo polverizzati da scissioni atomistiche e scelte dannose, nella crisi di sistema potremmo tornare a essere quantomeno punto di riferimento di una parte importante della società nazionale. A condizione che questo cammino lo si voglia compiere davvero. E che nella lezione di Roma e di Catania, del Nord e del Sud, si vedano i germogli di un fiore da coltivare.
*da Catania