“Tre, due, uno, gelato! Crema e ciocco-la-to, crema e ciocco-la-to, crema e ciocco-la-to!” Nei giorni in cui i figli della destra faticano a metabolizzare la dipartita del genitore, siamo ancora nella fase della “non accettazione” del lutto, Ignazio La Russa sfida il Comune di Milano sul terreno della libertà di espressione culinaria: “Oggi faremo la rivoluzione del cono alla crema e cioccolato!” dichiara il colonnello che a bislacca proibizione, Pisapia ha infatti vietato di mangiare gelati all’aperto dopo la mezzanotte, risponde con l’ardito gesto della disobbedienza civile e lecca un cremino davanti a una camionetta della celere (in apparenza presente più per difendere l’iniziativa che per reprimerla).
Di fatto, non volutamente, questa scena finisce per dare il polso della situazione di un mondo politico che di sé fornisce un’immagine a cavallo tra gli appelli anonimi che su Facebook incitano quotidianamente alle rivoluzioni e l’inaugurazione del piroscafo aziendale del Secondo tragico Fantozzi, quello salutato dai dipendenti al grido di “Vi-ta, vi-ta!”. Un mix, insomma, tra battaglie né precedute da una seria elaborazione, né fornite di una continuità nel tempo, utile a farle sopravvivere al primo “necessario” cambio di casacca o di prospettiva per mantenere una poltrona. In uno scenario che vede contrapporsi “Cose nere” a “Non vogliamo i colonnelli”, esempio di questa doppiezza che usa l’ideologico sotto forma di parole d’ordine “più dette che lette” (come ha avuto modo di sottolineare Alessandro Giuli a Omnibus) per attrarre facili consensi è fornito dal fatto stesso che tra i colonnelli che “giammai torneranno con noi”, La Russa stesso non appaia. Potere taumaturgico di Giorgia Meloni che, evidentemente, riesce a ottenere per osmosi il ringiovanimento di uno che faceva politica prima di altri. Ma, come affermano in molti, non si tratta di una questione anagrafica. Si tratta, invece, di un problema di coerenza e di come essa possa essere comunicata.
La Meloni stessa, seppur più giovane dell’onorevole milanese, non può essere esclusa dalla lista di tutti quei dirigenti ex-An che un passo alla volta hanno condotto un contenitore di valori a strumento, prima, di consenso elettorale e, dopo, di mera salvezza personale. Tutti sono stati egualmente complici nel silenziare le proteste della basa giovanile quando questa si scagliava contro un Gianfranco Fini intento a stravolgere usi e costumi dei militanti con affermazioni (che pensava fossero) di comodo, tutti hanno accettato l’ingresso in un partito, il Pdl, che credevano permeabile dall’alto di una supposta supremazia etica e strutturale (esclusivamente presunta, poiché al momento dell’ingresso nel Pdl le cosiddette “correnti” erano già soltanto grumi strategici di potere), tutti hanno votato fiducia e provvedimenti del governo Monti, un governo che avrebbe dovuto rappresentare l’antitesi esatta di quello in cui dicevano di credere.
Ma, come si diceva, il fulcro del problema ruota intorno alla coerenza e chiunque abbia intenzione di provare a gettare le basi future di un nuovo inizio non potrà fare altro che basarsi su di essa, rendendola evidente tramite dei segnali inequivocabili. Per evitare accuse di eccessiva vaghezza si potrebbero anche provare a elencare quattro punti utili come mappa concettuale. In primo luogo sarebbe necessario aprire un tavolo di confronto tra l’ideologico e il pratico per gettare basi coerenti di movimento. Questo per evitare che a parole d’ordine come “sovranità” seguano voti in favore del Muos americano in casa nostra. In seconda battuta si dovrebbe avere il coraggio di non ricandidare nessuno che sia già stato seduto, anche solo un giorno, in Parlamento. Al netto degli echi di grillismo, una decisione del genere garantirebbe di superare di colpo il problema del concorso di colpe generalizzato della vecchia dirigenza. Necessario, poi, anche epurare i discorsi da tutti i nostalgismi retorici.
Non è possibile garantire che queste norme siano sufficienti ma, passati alcuni anni di doveroso silenzio, studio e riflessione, potrebbero costituire una base ipotetica di ripartenza. Sottolineare gli anni di silenzio è importante perché permette un’apertura all’ultimo punto consigliabile: quello di un “suicidio politico volontario”. L’impressione, infatti, è che per rendere possibile un ipotetico futuro, sia diventato necessario un sacrificio, atto a diventare quel segnale inequivocabile citato sopra, poco diverso dal gesto eclatante dell’intellettuale francese che ha deciso di porre fine alla sua vita in una chiesa di Parigi. Come l’uomo, che con la sua azione ha voluto dimostrare che chi crede in una nuova alba non deve temere la propria morte (fine delle sue possibilità terrene) per svegliare le coscienza, allo stesso modo, nel suo piccolo, una politica che vuole rigenerarsi deve essere capace di passare al silenzio e alla meditazione per uno, due o anche tre anni. Meditare, studiare e riflettere per tutto il tempo che occorre, senza curarsi delle insistenti voci che, appunto, bollerebbero sicuramente il ritiro con i marchi di “suicidio”, “viltà” o “perdita di competitività” sul mercato del bestiame elettorale. E questo dovrebbe farlo per eliminare definitivamente quella sensazione che spinge a ritenere le voci sopra citate come canti interessati di arrivisti in cerca di poltrone.
* da Torino
@fedecallas