L’Italia è razzista. Altroché.
E avrà ragione l’Onu con Michelle Bachelet, l’Alto commissario per i diritti umani a dirlo.
E lo è a tal punto che nella sua radice più sfacciatamente razzista – l’epoca coloniale e, manco a dirlo, fascista – l’Italia non faceva come la liberale Inghilterra o la giacobina Francia. E neppure come fanno ancora oggi gli Stati Uniti d’America quando “esportano” la democrazia: parcheggiando i suv Hummer direttamente sulle ossa dei morti e sulle macerie delle nazioni invase.
Ma l’Italia è razzista.
In quello che è oggi, e in quello che è stato quando – patria universale, armata di Diritto e grata alla Civiltà mediterranea – non esercitava l’apartheid (quello che ancora oggi l’Occidente impone in un preciso angolo del mondo, ma non si può dire).
Non seguiva, insomma, l’Italia razzista, l’andazzo delle potenze occidentali.
Faceva le porcherie proprie della guerra – come l’uso dei gas contro gli eroici guerrieri armati di spade – ma dopo, non separava la vita degli indigeni da quella dei conquistatori, per farne ghetti (come ancora oggi si vede, ma nessuno lo dice, perfino nel multiculturale Canada, a Montreal, nelle riserve dei Nativi americani).
L’Italia faceva un’unica anagrafe, un’unica scuola e un’unica prefettura delle faccette nere. Perfino delle targhe automobilistiche faceva una stessa motorizzazione.
E l’Italia era così razzista che non faceva come gli inglesi che stabilivano marciapiedi diversi per gli esotici colonizzati.
L’esercito – lo strumento di dominio – era così abbietto da organizzare camerate uniche con le brande per gli africani e gli “italiani”.
E così razzista poi, era l’armata in camicia nera da fare quello che mai e poi mai britannici, francesi, olandesi e portoghesi hanno mai fatto: costruiva caserme con la cappella cristiana e anche la moschea musulmana.
L’Italia era a tal punto razzista da far stampare e distribuire nel 1942 le copie del Corano, in lingua araba, ai propri soldati dell’Africa Orientale e Occidentale di fede islamica.
Faceva al modo di Roma antica, l’Italia: associava i popoli al proprio “destino”. Al punto che i combattenti eritrei – impartendo una lezione – si ritrovarono a onorare l’uniforme con i fregi di Casa Savoia a dispetto del tradimento consumato a Roma l’8 settembre.
L’ultima pagina di “Guerra in camicia nera” di Giuseppe Berto, uno dei pilastri della letteratura italiana contemporanea, è perfetta per spiegare l’ovvio razzismo degli italiani.
Ma capovolto nell’esatto contrario: noi scappavamo mentre una ragazza africana, scorgendo l’autocolonna andarsene via dall’Africa alzava il braccio nel saluto romano. Attestando l’esatto ius soli: l’italiana era lei, noi no.
Noi cominciavamo ad adeguarci ai parametri dell’Occidente.
*da Il Tempo del 12 settembre 2018