A 45 anni dalla morte, l’epica della Terra di Mezzo è un cult planetario. E nel genere fantasy, che ha contribuito a sdoganare, anche tanti autori moderni che lo trovano “datato” in realtà gli devono un grande favore
Inesorabile costante in tutti gli universi possibili, il tempo scorre (Quinta Era? Sesta? Settima?) anche secondo il sistema di datazione tolkieniano; quarantacinque anni fa si è portato il Nostro nelle aule atemporali di Eru Ilúvatar, ma la Terra di Mezzo vive ancora del suo eterno splendore, protetta come un insetto nell’ambra dallo squallore dei giorni trascorsi in questa nostra brutta copia dell’Arda vagheggiata dal grande oxoniano. I cavalli dei Rohirrim continuano a brucare l’erica nella Marca Occidentale, gli hobbit della Contea fumano l’erba pipa sulla porta di casa, i nani percorrono le viscere rocciose di Erebor ed i mercanti d’oro e gioielli mettono in mostra i loro tesori sulle palafitte di Esgaroth. La vita di quel mondo parallelo prosegue, anche se quella limitata e contingente del suo demiurgo si è interrotta ormai da qualche decennio. Nel mentre qui da noi, nel tempo piccino scandito dagli orologi al quarzo, è successo un po’ di tutto e la liturgia tolkieniana ha continuato ad essere officiata in modi nuovi, dettati di volta in volta dai più eterogenei registri della sensibilità e dell’introspezione.
Sono arrivati i film di Peter Jackson e le maschere dei cosplayer, le declinazioni psicodrammatiche del gioco di ruolo inventato da Gary Gygax, le sinfonie ispirate alla Terra di Mezzo, le opere teatrali e naturalmente anche tutta una nuova generazione di scrittori che in modo più o meno esplicito si dichiarano debitori del professore inglese e della dramatis personae da lui codificata: guerrieri, elfi, maghi e via enumerando. Perché se è vero che la narrativa fantastica non nasce con Tolkien, è anche vero che Tolkien nella letteratura dell’immaginifico ha l’immanenza oggettiva di una montagna. La si può aggirare oppure scalare; dalle valli sottostanti la si può deridere più o meno argutamente (il tentativo più clamoroso nel ’69, quindici anni dopo l’uscita della trilogia dell’Anello, con Bored of the Rings di Henry N. Beard e Douglas C. Kenney, futuri fondatori della celebre rivista satirica americana National Lampoon); le si può anche inveire contro come fanno oggi taluni cultori del fantasy sboccato e “sporco”, il grim dark; ma non si può semplicemente ignorarla. Persino un autore “antitolkieniano” per eccellenza come George R. R. Martin ha dovuto ammettere, con un’obiettività non priva di meriti, quanto l’epica ed il depositum simbolico della Terra di Mezzo l’abbiano profondamente influenzato.
La montagna è archetipo ancestrale della figura paterna, e per chiunque tenti di spingersi con la scrittura o la lettura al di là della percezione tangibile di ciò che chiamiamo realtà, Tolkien rappresenta proprio questo: magari in uno schema di “paternità condivisa”, dato che come si è detto gli infiniti registri della speculative fiction non si esauriscono con lui, ma comunque un genitore. Col quale si può anche litigare e non parlarsi per anni, ma che non si può rinnegare o confutare fino in fondo perché nella nostra vita è nascosta una parte di lui.
Un bilancio dell’epica tolkieniana
Cosa resta dunque di John Ronald Reuel Tolkien a quasi mezzo secolo dalla sua dipartita? Cosa resta al di là della “religione” editoriale alimentata dal suo gran sacerdote, l’ormai ottuagenario figlio Christopher, le cui pazienti curatele e certosine esplorazioni dei manoscritti paterni continuano (sempre più a fatica) a gratificare legioni planetarie di appassionati con racconti e lavori inediti? Cosa resta oltre al fenomeno culturale ed ora anche mediatico, oltre al brand milionario che alimenta un’interminabile congerie d’iniziative, artistiche o biecamente commerciali che siano? Cosa resta soprattutto al di là dell’indiscusso valore letterario di un autore al quale già da anni le antologie scolastiche hanno concesso – sebbene talora di malavoglia, soprattutto da noi – spazio sulle proprie pagine?
Nell’opinione di chi scrive resta ancora molto, anzi moltissimo. E questo perché la moderna narrativa fantastica, anche quella lontanissima o addirittura antitetica alle sue corde, ha con il Tolkien studioso ed esegeta un debito di riconoscenza difficile da colmare.
Non solo Tolkien è stato il primo e più autorevole avvocato difensore della cosiddetta “fiaba per adulti”, imprigionata sin dall’epoca vittoriana nell’angusto recinto della letteratura per l’infanzia; ha anche fornito a questa particolare forma di ars narrandi una filosofia profonda e strutturata. Il celebre e citatissimo studio “Sulle Fiabe” (On Fairy Stories), di cui nel 2019 ricorreranno gli ottant’anni della pubblicazione, tra tante altre cose è una sorta di contro-saggio: laddove in genere uno studio specialistico cerca in genere di definire, schematizzare “scientificamente” e ricondurre una determinata fenomenologia – anche artistica e letteraria – entro costrutti semantici definiti e ripetibili, il Tolkien-pensiero celebra l’infinita ed inesauribile complessità del suo campo d’indagine.
Entrare troppo in dettaglio su questo importante lavoro, peraltro arcinoto ai conoscitori della materia, travalicherebbe i limiti di questo breve scritto; qui interessa solo ricordare perché i suoi ragionamenti sono il fondamento mitopoietico non solo dell’universo da lui creato, ma di tutti quelli che ogni autentico Scrittore/Scrittrice del Fantastico, chiunque sia, potrà concepire in futuro: high o low fantasy che sia.
I dizionari ottocenteschi imbevuti di razionalismo ricordavano che i sogni sono solo “le immagini del dì guaste e corrotte”; ma si tratta di banale sonno REM, l’immaginazione consapevole è ben altra cosa. Come lo è la sua diretta filiazione letteraria, quella letteratura “fiabesca” troppo a lungo confusa da certa cultura ufficiale con le storielle infantili della buona notte o con le tenere, furbesche puerilità delle produzioni disneyane. Essa è opera della Fantasia creatrice dell’uomo che è insieme attività razionale e spirituale; riflesso di una facoltà che nella visione del cattolico Tolkien promana direttamente da Dio. L’essere umano che immagina è dunque, secondo un termine particolarmente caro al Professore, “sub-creatore”: “Creiamo nella Legge che tali ci ha voluto”, ribadiva, firmando un’autentica patente di nobiltà per una letteratura eminentemente adulta, i cui meccanismi sono ben più sofisticati dello sterile escapismo o di quella supina e convenzionale accettazione dell’inverosimile letterario che Coleridge chiamava “sospensione dell’incredulità”. Nelle loro migliori e più lucide epifanie, i mondi della sub-creazione sono complessi ed internamente coerenti: hanno leggi e lingue, cronotassi di re e lunghi annali di storia e di vita vissuta, ordinaria o straordinaria che sia. Quanto al loro orizzonte, esso “contiene molte altre cose oltre ad elfi e fate, oltre a gnomi, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo”. È l’interminata vastità del Reale che qui si celebra: non il nostro Reale, certo, ma quello alternativo che l’aedo di ogni tempo crea (o forse solamente sbircia) tra le innumerevoli pieghe del possibile e ripropone al suo pubblico.
In questa questa visione, che non offusca ma esalta i suoi meriti come autore, sta forse il lascito più importante di Tolkien, sciamano sapiente e bonario, agli autori contemporanei: l’aver scoperto, magari passeggiando tra i fiori del suo giardino al 22 di Northmoor Road, che la Fantasia è una cosa seria perché è illimitata ed eterna. Due attributi con i quali non è saggio scherzare troppo.