Io lo sentivo che il Parma ce l’avrebbe fatta, senza tempi supplementari. Per via di un buon segno. Martedì scorso ho incontrato Nevio Scala. C’era un ricevimento per promuovere e pubblicizzare il Mondiale 2018, quello del nostro scontento, al Consolato Russo di Milano. Molta nostalgia, però un buffet di alto livello. Nevio aveva portato i suoi vini. Erano anni che non lo incontravo e l’abbraccio con lui mi ha aperto il ricordo su una storia di calcio cominciata con un’intervista che feci a quello che veniva definito “l’allenatore contadino”, ma che in realtà è un allenatore gentiluomo, nel maggio del 1990, dopo la prima storica promozione del Parma in serie A. Allora Scala, a proposito di Maradona che aveva appena conquistato il suo secondo scudetto, disse: “Non lo vorrei nella mia squadra se mi rovinasse l’equilibrio”. Non era una boutade. Il Grande Parma che si impose subito nel panorama calcistico nazionale e internazionale fece dell’equilibrio e del senso di appartenenza le sue caratteristiche principali, cercando sempre, anche quando arrivarono grandi campioni di non snaturare mai il suo approccio al calcio.
Mi è passata una storia davanti. Il primo raduno di serie A, un giorno d’estate, nell’hotel che allora si chiamava Baglioni ed era stato appena costruito, forse immaginando che saremmo scesi a legioni per accompagnare una bellissima avventura sportiva. Da allora più che un viaggio, più un servizio coperto per il Corriere, quella con il Parma è stata una compagnia. La squadra che avevo frequentato con i Ceresini al comando, quella che aveva lanciato Arrigo Sacchi, e che ritrovai con i Tanzi, non aveva il birignao delle grandi, anche quando divenne una di loro. Sul piccolo aereo che partiva e ritornava all’aeroporto di Parma e che chiamavamo “jumbolino” per via dei quattro motori, c’era una grande familiarità e, sempre, un salame da tagliare. Il Parma fu per quasi quindici anni un’enclave positiva, diversa, resistente, in un ambiente calcistico che andava verso l’imbarbarimento. L’anno della prima Champions, 1997-98, facevamo le partitelle società-giornalisti al campo del carcere. Durante le trasferte, poi, non mancava mai la cena con la stampa e, finché ci fu, il discorso del presidente Pedraneschi con la sua voce calda. Il mio Parma era un club culturale, un antesignano, anzi, direi proprio un’autentica rarità. Per anni era previsto un tour con guida nella città dove ci trovavamo. Nel 1993 il sorteggio offrì il Maccabi Haifa. Con la partita il mercoledì sera, Scala organizzò la conferenza della vigilia il lunedì sera, sul tardi, così, l’indomani andammo tutti a Gerusalemme. Nessuno l’ha fatto prima, nessuno l’ha fatto dopo. E il Parma arrivò in finale.
Cambiarono gli allenatori, ma questa idea che nel calcio non ci fossero nemici, che si potesse costruire un rapporto corretto tra tutte le componenti è rimasta negli anni, almeno fino al termine dell’epopea dei Tanzi. Dopo cambiò tutto, innanzitutto il nostro modo di fare giornalismo. Le trasferte duravano di meno, le persone si incontravano di meno.
Però è rimasto il senso di un’avventura nuova per i tempi e la mentalità italiani, un modo di intendere il calcio non rinunciando a vincere, ma inseguendo il successo in modo più rilassato. Parma mi ha regalato questo, tante storie, tanti grandi occasioni conviviali, tanti allenatori, da Sacchi a Scala, da Ancelotti a Malesani, da Ulivieri a Carmignani. Ecco il mitico “Gedeone” solo a Parma poteva resistere in panchina e arrivare a vincere la Coppa Italia e a conquistare un’insperata salvezza. O personaggi come Silvio Smersy con la sua teoria che colpire la palla con la testa rincoglionisce e lui non aveva avuto successo perché un attaccante che schiva le pallonate dove va? Cene memorabili a tirar tardi tra culatello e parmigiano.
Parma è stata tutto questo. E ora deve tornarlo. Deve dare continuità al suo progetto e recuperare lo spirito dei vecchi tempi. Bel calcio e bella gente. Si può fare. (da La Gazzetta di Parma)