Ci sono pochi personaggi in grado di essere, allo stesso tempo, sportivi e filosofi. E, sono ancora meno quelli che, divenuti ormai “mainstream”, non perdono la loro essenza originaria. Nell’universo calcistico nostrano, Boskov o il professor Scoglio a parte, sicuramente va ricordato Zdenek Zeman. Fuggito dalla Cecoslovacchia invasa dall’Armata Rossa, il boemo ha saputo costruirsi un carriera in Italia, svincolando la prestazione dall’ossessiva ricerca del risultato fine a sé stesso. Sempre coerente con la sua persona e con le sue idee, Zeman, a queste latitudini, resta un caso più unico che raro. Oltre oceano invece, in quel complessissimo giochino che è lo sport professionistico americano, l’ottica è leggermente diversa: infatti, diverse sono anche le basi culturali e socio-economiche dalle quali muove quel contesto e che hanno reso molto meno allineati tanti suoi protagonisti. Tra questi ce n’è uno che, per lo meno in NBA, li incarna tutti: questo uomo infatti, rappresenta al meglio tutti coloro che esternano tale modo di essere. Il suo acronimo: RAW. Raw, in inglese una parola molto fine che significa poco cotto, sta per Rasheed Abdul Wallace. Wallace, senza mezzi termini un filosofo prestato al basket, può essere annoverato tra le migliori ali grandi ad aver giocato tra la seconda metà degli anni ’90 e i primi 2000. Egli, è stato addirittura in grado di coniare delle espressioni che, al giorno d’oggi, sono riportate nei più aggiornati dizionari di gergo americano.
Rasheed Atto I. Il contesto
Wallace nasce a Philadelphia, il 17 settembre 1974, in una famiglia di musulmani neri. Phila è una città molto particolare: quando era una città coloniale (secondo porto dell’Impero dopo Londra), gli inglesi, caso eccezionale, le concedevano la messa cattolica. Così facendo, si rese possibile la diffusione del culto nell’area e la conseguente nascita di molte scuole cattoliche. Ecco perché il basket, sin dagli albori, vi era così diffuso. Essendo infatti questi istituti molto più poveri rispetto agli altri confessionali, per fare dello sport scolastico ci si arrangiava. Era evidente perciò, che attaccare due cesti a delle travi costava infintamente meno della costituzione di un campo da football o di baseball.
Philadelphia negli anni ’70 era anche culturalmente fervente: proprio qui nacque e da qui si diffuse la cosiddetta Philadelphia Soul. La Philadelphia Soul consiste in un genere musicale caratterizzato da armonie di derivazione funk, R&B e Jazz. In città, tuttavia, vi era anche, vi è tutt’ora, un importante comunità di “black muslims”, musulmani neri che non erano necessariamente benestanti, anzi. Proteste e dimostrazioni erano quindi all’ordine del giorno; la loro coscienza nera, rafforzata anche sulle idee di Malcom X, portava ogni volta fuori dai ghetti il desiderio di un tangibile miglioramento delle loro condizioni cui, le pubbliche autorità non esitavano a rispondere con la forza. E’ questo il clima in cui nasce il nostro protagonista.
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Bambi: tra High School, campetti e North Carolina
Soprannominato Bambi per via di una vistosa macchia bionda sul capo, il suo nome si diffonde ben presto. Già all’High School di Simon Gratz, alle dipendenze di Coach Bill Ellerbee le sue cifre sono impressionanti: 17,5 punti a partita, oltre 17 rimbalzi ed oltre 7 assist. Il giovane Wallace però, è anche un tipetto per nulla male: la riprova sta nel fatto che il fatto che la mamma si fosse raccomandata nei confronti del coach, senza mezzi termini, di schiaffeggiarlo in occasione delle sue mille stravaganze. Rasheed comunque, in quegli anni non gioca solo un basket scolastico/istituzionale ma si diletta anche in quello di strada. Questa volta, alle dipendenze di coach Tennis Young. Tennis Young per lui è fondamentale. Basti pensare ad un fondamentale di esistenza fatto suo da parte di coach Tennis ; ovvero: si va a dormire coni pantaloncini da gioco e le calzettine da gioco- Because you never know if a game breaks out-, perché non puoi mai sapere se c’è una partita da giocare nella notte. Dopo le superiori, Sheed va a North Carolina dove incontra coach Dean Smith, lo stesso che aveva allenato Michael Jordan. Appena Sheed comincia a palleggiare, nel primo giorno di allenamento, Smith sentenzia: “That’s an All American, right there”, prevedendo per lui un radioso futuro. Tuttavia, i due anni universitari, sebbene fondamentali, non sono eccezionali. Durante la sua permanenza, North Carolina non riesce a far suo il titolo NCAA. Nel 1995 perde in semifinale delle final four, dopo neanche esservisi qualificata l’anno prima.
Approdo all’NBA
Nello stesso 1995 entra in NBA con Washington. Dopo solo una anno però passa a Portland, dove milita fino a metà del 2003-2004. L’esperienza con i Trail Blazers è decisiva per farci capire tanto dell’uomo, quanto del giocatore. Il cestista Wallace è indiscutibile: blocchi di qualità, rimbalzi, tiro da fuori, movimento dal post. Il tutto al sublimato da una intelligenza cestistica fuori dal comune. Un sapiente della pallacanestro. L’uomo invece, diciamo così, si mantiene sul conflittuale. Pur guadagnando fino a diciassette milioni l’anno, resta un uomo di pugilato (Wallace tra le altre cose ha migliorato quest’arte nella città natale), va in giro con le Nike Air Force lacere e con dei giacconi che hanno dei buchi sulla fodera grandi come ciambelle: questo è il suo stile. Nonostante sia un giocatore famoso e sia il “padrone della città” non perde mai la sua essenza e non scorda mai da dove viene: restano storiche le sue polemiche contro il sistema NBA e contro il modo con cui la lega reclutasse i giocatori. Restano storiche le sue litigate con gli arbitri…già, gli arbitri. Considerati da Wallace incapaci, in quanto troppo piccoli per scorgere cosa succeda lassù, nella lotta perpetua tra i giganti cestisti, gli arbitri sono oggetto di insulti a non finire. Non c’è da stupirsi se nel 2000-2001, su 80 partite giocate, prende 41 falli tecnici e che, ad oggi, con 317 tecnici, guidi questa speciale classifica. Quando gli chiedono cosa pensi del suo atteggiamento, di fronte a tutta America risponde: l’importante è che, a fine mese, sia “CTC”. CTC (acronimo di cut the check, letteralmente staccare l’assegno, dare lo stipendio) è una espressione coniata da Wallace riportata oggi da qualche buon dizionario. E’ un rashhedismo. Uno dei tanti.
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L’epilogo a Portland e la rinascita a Detroit
Portland in quel periodo è un’ottima squadra ma implode spesso, non riuscendo mai ad arrivare fino alla fine. Nel 2000 raggiunge le finali della Conference Ovest, dove però perde con i Lakers, poi campioni, dopo aver buttato anche partite con vantaggi in doppia cifra. Ad ogni modo però, il culmine, Sheed lo raggiunge nel 2003 quando si becca una squalifica di sette partite. Bambi infatti, dopo aver aspettato nella pancia del palazzetto l’arbitro Donaghy, reo di avergli fischiato un tecnico senza senso, lo prende per il collo e gli sventola il destro davanti ai denti, pur non colpendolo. Donaghy però, purtroppo per il giocatore, stila il rapporto. A questo punto è chiaro che la situazione fosse insostenibile. Nel 2004, ceduto, va ad Atlanta e poi a Detroit dove vince, incredibilmente, il titolo in quello stesso anno. Detroit è una squadra forte, non con una stella ma con tanti grandi giocatori: la sua situazione perfetta. Potrebbe vincere anche l’anno dopo ma una incredibile tripla di Horry, su uno svarione difensivo proprio di Wallace, consegna il titolo ai San Antonio Spurs. Dopo aver lasciato Detroit nel 2009, gli ultimi anni sono conditi da un passaggio a Boston (dove nel 2010 perde il titolo contro i soliti Lakers), da un ritiro e da un ultimo anno a New York, il 2012-2013.
Lo Sheed filosofo
Tra le tante perle regalataci dallo Sheed filosofo, ce n’è una, da lui coniata, che può essere accostata al “Cogito ergo Sum” o al “Panta rei”. Questa è: ” Ball don’t lie” -la palla non mente-. “Ball don’t Lie” non è una semplice massima. E’ una vera e propria legge naturale che non si può governare, soprattutto da parte degli arbitri. E’ la legge naturale della palla da basket che riesce ad esprimere la propria volontà, anche di fronte alle bassezze dell’uomo. Ecco dunque perché i Detroit Pistons del 2004 furono la sua situazione ideale: non c’è una super stella ma “solo” grandi giocatori che lottano insieme per il bene della squadra. Tutti si aiutano tra di loro e si passano la palla. Tutti partecipano e “ball don’t lie”.