A Mario Perniola, tra i più originali studiosi di estetica del nostro paese, si deve un libro davvero stimolante. Ci riferiamo alla sua ultima fatica, Estetica italiana contemporanea. Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant’anni, recentemente edito da Bompiani (euro 12,00). Da queste pagine emerge innanzitutto una certezza. Il contributo che la filosofia italiana del Novecento ha fornito al dibattito europeo è stato determinante. Si tenga presente, come ricorda l’autore nell’incipit del volume, che la disciplina filosofica oggetto d’indagine, l’estetica, fin dagli esordi settecenteschi “ha giocato un ruolo essenziale nell’autorappresentazione della società borghese, al punto da costituirne l’inconscio politico” (p. 7). Perniola fornisce, quindi, strumenti assai rilevanti per la decodificazione di tratti significativi del tempo presente. Riesce a farlo, per di più, in modo avvincente, grazie al tratto coinvolgente del narrato, che stempera il carico erudito del suo dire.
A partire dagli anni Cinquanta, la cultura estetica italiana è stata dominata dal pensiero di Gramsci e di Pareyson. La posizione gramsciana è prossima alla dialettica hegelo-marxista ed “intende la contraddizione come il motore dello sviluppo e del progresso sociale” (p. 8). Pareyson, al contrario, si pone nel solco di Goethe e Schelling, fautori dell’organicismo estetico, in cui gli opposti sono polarità che si sostengono reciprocamente. Dalla metà degli anni Sessanta, si ebbe una reazione teorica a tali posizioni, incapaci di render conto delle trasformazioni socio-politiche della contestazione. Fu necessario pensare gli opposti secondo diverse modalità, oltre la dialettica e l’organicismo. Ciò produsse l’irrompere di sei diverse linee speculative, divergenti tra loro. Di seguito, discuteremo alcune di tali vie esegetiche e le loro implicazioni.
Innanzitutto, è necessario far riferimento all’opera di Massimo Cacciari, che ruota attorno, per il precedente rappresentato da Bodei, alla definizione del concetto di armonia. E’ la figura dell’Angelo a risultare essenziale: essa rappresenta la rottura di ogni necessità destinale. “Grazie ad esso il mondo può essere visto come ‘uni-verso’, cioè un tutto armonico, una concordia discors polifonica” (p. 21). Il filosofo veneziano aderisce ad una concezione correlativa degli opposti. Richiamandosi ad Origene e Gregorio di Nissa, Cacciari annuncia profeticamente un Nuovo Evo in cui, in funzione della grazia, tutti saranno salvati. Così, “Il negativo nella molteplicità […] si auto annulla ‘perché il Male è costitutivamente nulla” (p. 22). La separazione è sentita come diabolica, e ciò che si fa borioso della propria bellezza, deve essere negato. L’Angelo si fa necessario! Negli sviluppi di questo iter, il pensatore rivendica la pace come unità armonica, alla luce dell’intuizione eraclitea. Rispetto a quella pitagorica, quella di Eraclito è armonia più potente, custodisce la contesa. Tale posizione implica il rifiuto dell’organicismo estetico e di quello politico, la città, infatti, è sempre potenzialmente capace di dissolversi nel conflitto.
A Massimo Donà va ascritto il merito di aver calato l’elaborazione teoretica del concetto di aporia, nella presentazione della storia del pensiero estetico. Ciò lo ha indotto ad individuare tre approcci diversi a tale ambito. Il primo comprende le estetiche del piacere, che hanno tratto origine da Platone ed Aristotele. Con lo Stagirita l’arte si arrocca definitivamente attorno al soggetto-spettatore. Fece seguito all’edonismo, l’estetica emanatista di Plotino, rinviante all’identità di bello e Uno. In tale prospettiva si considerò il non-essere come assenza di essere e, allo stesso modo, furono intese tutte le altre forme di opposizione. Solo nell’estetica tomista, sostiene Donà, il bello è esperito in modalità “eccessiva”. Oltre l’armonia e la conciliazione, fa irruzione l’ “impossibile”, indotto dallo scandalo teologico di un Dio che sale in croce e si fa uomo. Nell’epoca contemporanea alle estetiche di secondo tipo corrispose la produzione di Paul Klee, a quella di terzo tipo, tra le altre, la musica di Miles Davis.
Tra i pensatori italiani del sublime, un ruolo di primo piano Perniola attribuisce ad Andrea Emo. Il suo antimodernismo, e il suo superamento dell’attualismo, lo indussero a comprendere, anzitempo, la catastrofe che si annunciava nel rifiuto del passato, che si annunciava nella società contemporanea. Il suo acume lo spinse al silenzio: la catastrofe non poteva essere detta pubblicamente. Il filosofo veneto-patavino “traspone su un piano empirico, naturalistico e individuale il pensiero in atto di Gentile” (p. 113). Compie una naturalizzazione dell’assoluto, le cui premesse erano già in Pirandello. In questo modo pone la società e il singolo di fronte all’origine, il nulla. Ma la medesima sfida lancia al naturalismo, la stessa natura è il nulla, momentanea positività assunta dalla negazione. L’arte, quindi, è sempre originale, in quanto riproduce questa origine, questo nulla di ente. Non può che essere arte iconoclastica. Paradossalmente, il programma di studi del solitario Emo, registra il senso ultimo della società digitale: a suo dire l’eterna presenza coincide con l’eterno annullamento: “Con Internet, Emo condivide anche la distruzione dell’unità formale dei testi, la loro frammentazione illimitata” (p. 123).
Altra esperienza di pensiero assai rilevante è quella di Giorgio Colli. La sua filosofia è forma di estremo monismo che considera la vita espressione di qualcosa di enigmatico. Nella sua ottica la vita profonda si attinge nel passato, e ciò accade perfino nell’epoca contemporanea che lo ha obliato. La desoggettivizzazione del pensiero in lui si traduce in atteggiamento estatico, che riflette una ripresa del monismo esoterico, consustanziale, peraltro, al “tono da Signore”, libero e alieno dai condizionamenti sociali e lavorativi, assunto dal pensatore. Estraneo alla ratio illuminista, egli non si fa alcuna illusione sul ruolo salvifico della cultura. Il suo guardare al mito lo accomuna a Roberto Calasso. Questi interpreta il reale come mosso da un conflitto insanabile “connesso con un ideale estetico che si regge sulla conoscenza di un orrore illimitato” (p.192). Diverso il rapporto con l’Antico istituito da Gianni Carchia che, preliminarmente, ammonisce rispetto ai rischi impliciti nella secolarizzazione del fare artistico. A Carchia si deve l’intuizione che, attualmente, non manca tanto una “filosofia dell’arte”, quanto un’ “arte della filosofia”. Il filosofo è “qualcuno che comincia un’attività libera che merita di essere perseguita per se stessa indipendentemente dal riconoscimento ottenuto, dalla carriera accademica o dal successo editoriale” (p. 217). In pochi ne hanno coscienza.