Come un ruscello che parla sottovoce (edizioni Tabula fati, pp. 71, € 8) è la quinta raccolta di versi della poetessa barese Mariella Ceglie. In queste liriche, come scrive Daniele Giancane nella prefazione, “la parola è sempre sussurrata, lieve, aerea… Come un ruscello che parla sottovoce porta all’ennesima potenza questa “tendenza al sussurro”, all’ascolto, alla lieve descrizione, quasi al silenzio dell’anima e del mondo… che diviene quasi totalmente musica, ritmo, parola che scivola nell’aria creando suggestioni e reazioni emotive. Siamo quasi vicini alla partitura musicale, in cui notte, onde, bosco, ulivi, vento, gelsomini, stelle, orchidea, sono i protagonisti della “scena”. Persino l’Autrice pare sperdersi in questo mare, come mettendosi da parte, limitandosi ad osservare.” Ed infatti, in questa silloge la Ceglie si distacca dalla sua precedente tematica amorosa (con l’unica bella eccezione di Tra le mani solo un’orchidea) per affacciarsi delicatamente al mistero della vita e del tempo, osservando il mondo che la circonda da una prospettiva diversa, quasi come se si immedesimasse in un lento corso d’acqua che produce emozioni e metafore:
“Cercare il vento,
che sparge i pensieri,
malvagi s’annidano
senza fare davvero male.
Non arrendersi
ai minuti di gioia
alle ore di tristezza
ai secondi di felicità.
La forza è inutile.
È più facile lasciarsi andare,
come gustare una ciliegia.
Sono un ruscello
che parla sottovoce.”
(Pensieri sparsi)
Con queste poesie la poetessa sembra quasi volersi inserire, con le forme proprie della poesia, nel filone della riflessione esistenzialista sull’essere, in particolare sul solco dei filosofi Karl Jaspers e Gabriel Marcel. Infatti le liriche non di rado non concludono, pongono interrogativi, segnano un’apertura verso l’essere che si mostra e nel contempo si sottrae alla possibilità di coglierlo definitivamente. Come con profondità, vorremmo dire poetica, scrive il filosofo Jaspers, è proprio dell’uomo lo scacco, lo stare in “situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire”, sicché l’uomo può solo giungere al silenzio di fronte alla domanda sulle ragioni dell’essere e ad una pace interiore:
“Estasi del silenzio,
soggiogata dall’odio,
da un castello di sabbia
indistruttibile,
da un perfido rumore,
terribile martello
che più non mi appartiene.
Erano spenti i sensi dal grido.
Non ricordo che sere d’autunno,
gelate monotone,
giardini mesti,
appassiti rami.
I santi non udivano il canto del dolore
e i gatti sfidavano la notte
come pantere affamate.
La gioia del silenzio, ora,
che parla.
Sottovoce.”
(La gioia del silenzio)
Questa attitudine alla meditazione spiega, come ancora nota Giancane nella prefazione, il fatto che la poesia della Ceglie sia una poesia di domande, ben dodici in una trentina di testi.
Ne è un esempio significativo questa lirica:
“Come sono belli palazzi e chiese
quando si ha vent’anni,
ignari dei segreti del vento.
Dove inizia la memoria?
Dove termina il presente?
La sfortuna è un foglio ingiallito
di cui non puoi decifrare i segni.
Negli sguardi dei vinti
lacrime di gesso si liberano
come farfalle.
Soffia un gran vento.
La notte è un canto di chitarra.
Le viole riempiono le ombre.
Perché non piantare un sogno,
cuore sfiorito che affascina?
La sorte ha trovato il vuoto.
Voltarsi indietro
come una maschera
e guardare ai ricordi,
ad una nobile storia.
(La notte è un canto di chitarra)
Una raccolta poetica, dunque, che per la sua impronta meditativa può, mutatis mutandis, accostarsi alla poesia giapponese degli haiku o a quella ariosa e pensosa del siriano Adonis (citato non a caso nell’esergo).