Benedetto Croce nel Breviario d’estetica nota acutamente l’errore di chi considera “come infelice il tempo in cui non erano vie ferrate e navigazione a vapore, laddove infelici non siamo se non con noi stessi in immaginazione, quando, adusati ormai a tali comodi di vita, ci fingiamo trasportati in luogo in cui quei comodi non sarebbero e sarebbero invece i correlativi bisogni, nati con quei comodi.”
La felicità, infatti, non dipende dalla quantità di beni e di bisogni ad essi correlati, non dipende dal numero di saponette che si consumano o dalla quantità di benzina che si brucia, che sono gli unici valori di cui tiene conto il PIL, trascurandone altri come la salute, i boschi, la bellezza dei nostri paesaggi. Dipende piuttosto dal dare un senso al proprio esserci nel mondo, dal sentirsi parte di un destino o, se si vuole, dalla consapevolezza di far bene la propria parte nel mondo. Possiamo dire col poeta americano Edgar Lee Masters: “Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio, è una barca che anela al mare eppure lo teme.”(Antologia di Spoon River). Pertanto, non è affatto peregrina la domanda se la nostra civiltà industrialmente avanzata ci renda più felici rispetto al altre civiltà storicamente esistite.
L’esperienza quotidiana, la ragione, lo studio della storia ci dimostrano che non siamo felici. Manca a tutti noi una grande prospettiva storica, un mito che ci dia forza, un’idea per cui lottare. Ci sentiamo poveri nell’opulenza. Non aveva dunque torto Ortega y Gasset quando scriveva: “una cultura contro la quale si possa lanciare il grande argomento ad hominem che non ci fa felici è una cultura incompleta.” (Meditazioni sulla felicità).