Il Pipita finisce per cantare la Paloma e ne rifila due a Donnarumma, che pensa ancora al rāga della sera. Le due sassate di Gonzalo – una per tempo, la prima in un fazzoletto e la seconda a coronamento di un break esemplare – non sono però gemme di una gragnola battente, anzi: la Juve intiepidisce i guantoni rossoneri una sola volta con Dybala a quindici minuti dal gong. E’ fuor dubbio, carta canta ma, più che averla vinta la Juve, l’ha persa Don Vincenzo.
Uno spettro si aggira per San Siro: non è la coreografia di Jack o’ lantern né Bonucci – che, da par sua, sbaciucchia Allegri e vecchi sodali, e Zapata gioca senza sbavature -, ma il centrocampo. Al densissimo 4-2-3-1 bianconero (a destra c’è Cuadrado, Dybala è l’Uno anarchico e Higuain si abbassa in pressing fino alla mediana tappando ogni buco, lo stakanovismo di Mandzukic non è più notizia da tempo) il Milan risponde con il solito e ingarbugliato modulo dal centrocampo rinforzato. 4-1-4-1?. I quattro caballeros della difesa in realtà sono i “tre e mezzo” spallettiani, con il redivivo Abate e Rodriguez che a turno si allineano nel reparto avanzato; sugli esterni Borini, relegato al ruolo di facchino, galoppa e si sacrifica, Çalhanoglu è evanescente, Suso si aggira per raccordare i reparti, combina ciò che riesce ma è metodicamente ingabbiato da Asamoah, Chiellini e Khedira: così la Juve taglia le provviste a Kalinic, che si fa volpone solo al quarantacinquesimo, scheggiando su tap-in la traversa. La vera grana, però, sono i due al centro, sbiaditi metodisti e titubanti incontristi. Biglia è appannato da settimane e Kessie sbaglia ogni fase, perdendo palle sanguinose e regalando praterie al cinismo zebrato (la mentalità è sempre quella da scudetto).
Oggi non è stato il capitano milanista a spostare gli equilibri. (Non) merita menzione l’ingresso nel finale di André Silva e del vacuo sbrilluccichio delle sue giocate. Qui, intanto, stiamo passando alle cose formali per il Manifesto per Cutrone titolare.