EFFEMERIDI-Repêchage. 8 ottobre 1974. A Firenze muore Baccio Maria Bacci, pittore che per decenni fu al centro del mondo culturale fiorentino.
Fu un artista come si conviene ai veri artisti, un ribelle, scevro da conformismi, un carattere che lo portò a delle scelte che pagò anche duramente.
Era nato l’8 gennaio 1888 a Firenze in una famiglia di artisti (dal nonno, al padre, ai biscugini) ed ebbe la fortuna di crescere in una casa sulla collina di Bellosguardo. Un toponimo che esprime come meglio non si potrebbe qual’è la veduta di Firenze da quella collina.
Niente di più logico che, nascendo in una famiglia di artisti, finir pittore; ma non fu così semplice per Baccio che invece ebbe a che fare con l’idea dei genitori di fargli fare una professione.
Fu così che il quindicenne Baccio Maria scappò di casa – siamo ai primissimi del ‘900 – e raggiunse la Germania, prima Monaco (dove incrociò la pittura della Secessione) e poi Norimberga dove si stabilì e sopravvisse decorando ceramiche e vendendo acquarelli dipinti da lui.
La Polizia lo rintracciò su incarico della famiglia preoccupata della sua sorte e lo rispedì a casa.
Tornato a Firenze e ottenuto ciò che voleva a patto che si iscrivesse ai corsi dell’Accademia di Belle Arti, continuò a fare il pittore e frequentò, come pattuito, i corsi dell’Accademia, quasi fino alla fine ma, sempre subendo malvolentieri la disciplina anche negli studi.
I suoi insegnanti, tra i quali Giovanni Fattori, ebbero il loro bel da fare con quell’allievo particolare, il più turbolento tra tutti che alla fine riservò la sorpresa, caratteristica di molti “irregolari” da Julius Evola ad Alain de Benoist, di rifiutare il riconoscimento di normalità borghese, il diploma accademico. Dopo i corsi e il tirocinio, a una settimana dagli esami, se ne andò…..
Continuò quindi a disegnare senza titolo accademico e ad esporre, incoraggiato e aiutato da molti degli intellettuali del suo ambiente fiorentino, da Emilio Cecchi a Carlo Michelstaedter, il filosofo goriziano suo coetaneo che si suicidò con un colpo di pistola di lì a poco, a 23 anni.
Iniziò anche a vincere premi; forse il primo per il suo “Temporale sulle Alpi Apuane”.
A Bacci l’ambiente artistico fiorentino di allora pareva troppo chiuso; “deprimente ranocchiaio” lo definì in una lettera ad un amico e, ancorché dovendo fare i conti con la sua fiorentinità che lo avrebbe volentieri convinto a metter radici nel suo dorato studio, pensò che “per me la pittura oltre ad essere una passione, è un modo di conoscere, di sperimentare, sperimentarmi e costruirmi”, e così partì per l’altro polo artistico mondiale dopo Firenze, Parigi.
Già era stato fortemente influenzato da Cézanne, a Parigi incrociò Futurismo e Cubismo, frequentò Apollinaire e Picasso.
Poi fece la spola tra Firenze (anzi la villa di Fiesole, un’altra delle colline davanti alla città del Giglio) e la Svizzera dove conobbe anche Vasilij Vasil’evič Kandinskij.
Fu combattente nella Prima Guerra mondiale nella quale entrò anche con la pubblicazione di una sua opera letteraria: “L’artiglio tedesco”, nel 1915, e al termine della quale pubblicò “Come abbiamo vinto l’Austria”, nel 1918.
Ritornato a Fiesole si dedicò nuovamente alla pittura, preparò una esposizione a Ginevra e soprattutto partecipò alla grande Esposizione nazionale della Fiorentina Primaverile nel 1922 con molti lavori (“La piena dell’Arno a Compiobbi”, “Pioggia di primavera su Monte Ceceri” etc.). La mostra della “Primaverile”, che era finalizzata a presentare le opere delle giovani generazioni artistiche; si tenne nel Parco di San Gallo a Firenze, presieduta da Sem Benelli; furono accettati solo lavori che avevano superato la selezione di una commissione della quale facevano parte anche Galileo Chini e Libero Andreotti, due artisti che spesso sono presenti in queste “effemeridi”. Una mostra, quella della Primaverile, inaugurata il 20 aprile di quell’anno che presentò al mondo davvero il meglio dell’arte fiorentina del momento, attraverso i lavori dei suoi pittori e scultori. Un elenco troppo lungo da citare in questa breve nota.
Nello stesso anno, con gli amici Primo Conti, Raffaello Franchi, Curzio Malaparte e altri avviò un progetto per la costituzione di una Corporazione delle Arti di Firenze.
Nel contempo – siamo negli anni ’20 – i fermenti culturali in città erano in uno dei momenti più fecondi; Bacci partecipava alle discussioni al caffè delle “Giubbe Rosse”, all'”Antico Fattore” (il ristorante distrutto nell’attentato mafioso – e si chiariranno mai le collusioni e trattative tra Stato e Mafia? – nella maledetta notte fiorentina di via dei Georgofili del maggio 1993), al Caffé Michelangelo in via Larga (oggi scomparso nella strada che è stata ribattezzata via Cavour), con Plinio Nomellini, Guido Peyron, Ottone Rosai, Ardegno Soffici, Gianni Colacicchi, e poi Carena, Sacchetti, Guido Spadolini.
Inoltre – con scritti e disegni – entrò nell’avventura letteraria della rivista “Solaria”, una delle riviste più importanti dell’epoca, diretta da Alberto Carocci dal 1926.
Anzi, proprio nella limonaia di Bacci – un casale che c’è dai tempi di Giotto – scaturì il progetto della rivista “Solaria”, dalle discussioni di arte, musica e politica di quel sodalizio intellettuale. Una rivista che ebbe un ruolo nella storia della letteratura italiana della quale Bacci conservò intera la collezione fino all’ultimo numero del 1933 quando si abbatté su di essa la sciocca censura del Regime fascista.
Nel 1923 fu avviata un’operazione di rilancio turistico per Firenze – la riprenderà poi in pieno Regime il Segretario Federale fiorentino, il giovane intellettuale Alessandro Pavolini – con la fondazione dell’EAT, l’Ente per le Attività Toscane, albero centrale che a sua volta dette vita ad una serie di ramificazioni come il Comitato regionale d’arte presieduto dal Sovrintendente alle Belle Arti Giovanni Poggi. Nel consiglio di amministrazione fu inserito anche Bacci.
Fu un tempo, quello, fecondissimo per l’arte a Firenze. Nei due poli artistici d’insegnamento, l’Accademia di Belle Arti e il Regio Istituto d’Arte di Porta Romana insegnavano artisti come Libero Andreotti, gli scultori Romano Romanelli e Antonio Berti (dei quali abbiamo avuto modo di parlare in queste schede) e anche Baccio Maria Bacci che vestì pure i panni di insegnante oltre a proseguire sulla via del successo con mostre a Milano, ad Amsterdam, a Basilea, a Nizza.
Nel 1929 iniziò un’opera che proseguirà per decenni e che terminerà solo nel 1962: gli affreschi nel Santuario della Verna (Arezzo) dove San Francesco ricevette le stigmate; Bacci vi raffigurò un ciclo di episodi della vita del Santo.
Ma la sua Firenze – che ormai non era più il “ranocchiaio” insopportabile dei suoi esordi, rimase sempre il luogo privilegiato per esprimere la sua arte. Il clima artistico degli anni Trenta era inimmaginabile (se si pensa al grigiore di oggi e alla bruttezze di ciò che viene esposto dagli attuali amministratori) e Firenze fece da catalizzatore di fermenti intellettuali, dalle riviste alle arti e la città dell’artigianato trovò il suo valorizzatore artistico in Pavolini che nel 1931 inventò anche la Fiera Nazionale dell’Artigianato, la cui prima (e per tanti anni) sede fu ospitata nel Parterre di San Gallo. E ce n’erano di cose da esporre, perché Firenze a quell’epoca era anche centro di arti decorative, dell’inventiva trasgressiva, basti pensare all’opera dei fratelli Michahelles (Thayaht e Rem), pittori, scultori ma anche stilisti di moda, basti pensare all’invenzione della tuta.
In quegli anni ‘30 per Bacci venne anche il tempo della politica, precisamente quando nel 1933 ci fu il passaggio del testimone tra due patrizi fiorentini nell’incarico di Podestà fascista di Firenze, da Giuseppe Della Gherardesca al conte Paolo Venerosi Pesciolini.
Nella nuova amministrazione, assieme a nomi altisonanti come quelli del barone Luigi Ricasoli Firidolfi, Giovanni Ginori Conti o Giangiulio Rucellai, entrò anche Bacci. Per lui fu l’inizio di un lungo periodo di impegni ufficiali, tutti legati all’arte fiorentina.
Ma il 1933 fu anche l’anno del suo matrimonio con l’inglese Elena Croon; matrimonio dal quale nacquero tre figli, Francesco, Lorenzo e Quirina.
Fu un periodo di profondo consolidamento di amicizie destinate a durare per tutta la vita, un gruppo che gravitava nella sua casa-studio a Fiesole, divenuta vero covo di letterati e artisti, dal pittore Giovanni Colacicchi al musicista Luigi Dallapiccola. Con l’amico musicista Dallapiccola lavorò anche all’allestimento di “Volo di notte” per il Maggio musicale fiorentino, altro dei tanti meriti dell’inventiva di Alessandro Pavolini.
Nel maggio 1938 fece parte dell’équipe di artisti incaricata di allestire la scenografia urbana di Firenze in occasione della prima visita di Adolf Hitler in città.
Baccio Maria Bacci fu incaricato di seguire l’area della Stazione di Santa Maria Novella dove arrivò il treno del Cancelliere tedesco.
Una visita che consolidò l’amore artistico di Hitler per Firenze e che sarà fondamentale per la salvaguardia della città fino all’agosto 1944 quando la stolta competizione del Generale britannico Harold Rupert Alexander con il Generale americano Mark Wayne Clark che aveva conquistato Roma, indusse il primo a piccarsi di voler passare per Firenze – per appiccicarsi una medaglietta, tutto qui in fondo – anziché passarle accanto e proseguire per la Linea Gotica.
Un capriccio che costò caro a Firenze, con la distruzione dei ponti (tranne Ponte Vecchio, probabilmente salvato per volontà di Hitler, va detto) e la guerriglia durata settimane tra franchi tiratori e partigiani nelle strade della città.
Dalla terrazza di Piazzale Michelangelo, Hitler nel 1938, disse alla sua guida, Ranuccio Bianchi Bandinelli: “Finalmente, finalmente capisco Böcklin e Feuerbach”, riferendosi in particolare ai famosi quadri di Arnold Böcklin sul tema dell'”Isola dei morti”, dipinti a Firenze dal pittore svizzero-tedesco venuto a vivere e a morire all’alba del nuovo secolo proprio a Fiesole.
E sarà Hitler in piena guerra, iniziati i bombardamenti Alleati sulle città d’Europa, a dar ordine di evacuare da Firenze tutti gli uffici militari tedeschi per non fornire pretesti per bombardare la città d’arte “la cui conservazione è considerata dalla Germania come uno dei più alti doveri che incombono alla cultura europea”, sostenne.
Spiace a chi scrive questa effemeride, aver sentito una narrazione totalmente falsa in merito, probabilmente più per ignoranza diventata vulgata che per faziosità, provenire da una guida durante una visita al Corridoio Vasariano.
Con la Seconda guerra mondiale ricevette un incarico eccezionale dall’amministrazione comunale, la protezione delle opere d’arte in città.
La cosa si fece seria, serissima, quando iniziarono i bombardamenti Alleati su Firenze. In uno di questi – l’11 marzo 1944 – morì anche il suo amico pittore Guido Spadolini (padre di Giovanni, il futuro letterato e politico italiano del dopoguerra, Segretario del PRI e Presidente del Consiglio ma durante la RSI giovanissimo collaboratore della rivista intellettuale fascista fiorentina “Italia e Civiltà); e toccò a Bacci tenere l’orazione funebre per l’amico Spadolini nella chiesa della Santissima Annunziata.
In Repubblica Sociale, nella Firenze del marzo 1944, tenne anche una mostra alla Galleria Michelangelo, nello stesso mese esposero anche Alessandro Schiebel ed Enrico Sacchetti.
Baccio Maria Bacci svolse meravigliosamente il suo lavoro di salvaguardia dell’incommensurabile patrimonio artistico della città e lo fece in modo silenzioso, al punto che l’amico Andrea Carlesi, autore di una pregevole e accurata ricerca d’archivio (“La protezione del patrimonio artistico italiano nella RSI. 1943-1945”, Greco & Greco editori, 2012) non si è imbattuto nel suo nome.
Nello stilare questa nota ho voluto avere la conferma documentale della vicenda, parlandone con Daniela Bolognesi, la vedova di Francesco Bacci, figlio di Baccio, ricevendone anche particolari che ignoravo come la sistemazione in una galleria di viale Volta (sotto la collina di Fiesole) di una parte del patrimonio che si trovava nella Galleria degli Uffizi.
Ma come spesso accade in Italia, non solo i meriti non vengono riconosciuti ma il più delle volte costituiscono fonte di guai.
E’ quello che accadde a Bacci che, tornato a Fiesole dopo il passaggio del fronte, fu arrestato in seguito ad una delazione – un classico! – e dagli inglesi recluso nel campo di concentramento di Padula (Salerno), il 371° Camp POW; poi ridenominato “A” Civilian Internee’s Camp C.M.F. Italy; un campo dove sono state stimante in circa 20.000 le persone che vi sono passate, perlopiù civili come l’archeologo e storico dell’arte Giulio Quirino Giglioli, il giornalista americano Giorgio Nelson Page, il Generale Ezio Garibaldi, (nipote di Giuseppe Garibaldi e vecchio membro della Legione Garibaldina che, incredibilmente, anch’io ho fatto in tempo a conoscere in Santa Croce nel 1964); l’armatore Achille Lauro, lo scrittore Paolo Orano che vi trovò la morte nel 1945; l’architetto Gino Calza Bini, i principi Francesco Ruspoli e Valerio Pignatelli, quest’ultimo, uno scrittore che durante la guerra fu a capo di una rete clandestina fascista nel Sud; il duca Carafa d’Andria, il pittore Roberto Fasola, l’uomo delle bonifiche delle paludi italiane Valentino Orsolini Cencelli e tanti altri nomi noti.
In quell’anno di detenzione Bacci riuscì ugualmente ad esprimersi, affrescando i muri dell’antica Certosa di Padula al centro del campo di concentramento.
Se gli inglesi reclusero Baccio Maria Bacci, gli italiani poi lo epurarono.
Finalmente nel 1946 poté tornare a Fiesole dopo un anno di prigionia, in breve fu riammesso all’Accademia delle Arti e del Disegno con incarichi direttivi.
Riprese i contatti con gli amici veri, con la solita onestà che lo contraddistingueva, facendo solo un po’ di cernita; nessun problema nel riabbracciare Giovanni Colacicchi, pittore suo amico fraterno e da sempre antifascista, militante del Partito d’Azione (di Colacicchi di recente si è potuta ammirare l’opera in una bella mostra a lui dedicata a Villa Bardini a Firenze); molti problemi viceversa nei confronti di Primo Conti, al quale non poteva perdonare di “aver saltato il fosso” dopo la guerra. Un Conti che si era pure esposto in RSI ma che poi minimizzò la sua adesione attribuendola al fatto che voleva evitare ritorsioni sulla moglie, cittadina inglese; un Primo Conti titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti fiorentina che nel dopoguerra ebbe pure una crisi mistica che lo portò ad entrare nell’Ordine francescano.
Bacci, che pur non era mai stato un “militante”, al fascismo non girò mai le spalle, nonostante l’ostracismo e i guai che ciò comportò. Furono in molti nella comunità artistico-intellettuale fiorentina a mantenere puntigliosa coerenza, dallo scultore Antonio Berti ad Ardengo Soffici.
Riprese a lavorare Bacci, agli affreschi nel convento di San Francesco alla Verna che erano stati danneggiati dal bombardamento americano del sacro luogo, ma anche nel convento francescano di Fiesole dove chi scrive questa nota fece a tempo in gioventù a conoscere fra’ Daniele, un giovane frate orfano di un combattente repubblicano.
A lavorare di pennello ma anche di penna, ad esempio con la pubblicazione in due tomi su “L’800 dei Macchiaioli e Diego Martelli: Telemaco Signorini”, dall’editore fiorentino Gonnelli, un fondamentale contributo sulla storia dell’arte dell’Ottocento, in particolare sui Macchiaioli. Oppure collaborando a una raffinata rivista della destra intellettuale fiorentina, “Giornale di bordo”, diretta da Alberto Maria Fortuna titolare allora di una libreria antiquaria nel centro di Firenze. Una rivista specializzata nella pubblicazione di inediti come appunto uno di Bacci, il suo “Diario parigino” del 1913, Pagine ulteriormente impreziosite dalle xilografie di Sigfrido Bartolini.
Dal 1955 al 1973 lavorò in un suo studio a Roma, sulla collina di Monte Mario per tornare infine a godersi il panorama fiorentino nell’ultimo anno di vita, il 1974.
Cosa ne è di Baccio Maria Bacci oggi?
Resta la sua opera citata in questa scheda, la si può ammirare nella Galleria degli Uffizi e sulle pareti del Santuario della Verna, ma anche – è il caso del suo autoritratto che abbiamo usato qui – nella parte terminale del Corridoio Vasariano, quella che finisce nel Giardino di Boboli, dove sono stati sistemati 127 autoritratti di artisti italiani e stranieri; e anche nel Museo del Novecento inaugurato a Firenze nel giugno 2014 nella sede dell’antico Spedale delle Leopoldine in piazza Santa Maria Novella, un progetto finalmente portato a compimento dopo 50 anni, una galleria dove i suoi quadri sono assieme a quelli di De Pisis, di Rosai, di Guttuso, Morandi, Soffici, De Chirico ecc., il meglio dell’arte appunto del ‘900.
Il comune di Fiesole gli ha dedicato una strada, accanto a via Böcklin, una ragione ulteriore scaturita anche dal fatto che la villa di Bacci era stata anche la residenza di Böcklin.
Sempre a Fiesole, nel 2002, nella Palazzina Mangani, centro espositivo della città, gli fu dedicata una mostra retrospettiva.
Curiosamente, il suo nome è comparso anche in un romanzo storico, un “noir” scritto a quattro a mani dalla fantasia e dalla bravura del giallista Leonardo Gori unita a quella del medievista Franco Cardini. Il pittore Bacci in questo caso divenuto uno dei protagonisti de “Lo specchio nero” (Hobby & Work, 2004), una storia che si svolge tra Firenze e Parigi durante la guerra, protagonisti principali il Capitanto dei Carabinieri Bruno Arcieri e il biondo Obersturmbannführer delle SS, Dietrich von Altenburg, le cui vicende, assieme a quelle della bellissima ebrea storica dell’arte Elena Contini sono proseguite ne “Il fiore d’oro”, questa volta tra Venezia e la villa di d’Annunzio al Vittoriale di Gardone Riviera. Due romanzi di Gori della ormai famosa serie delle avventure di Bruno Arcieri, l’ultimo in ordine di tempo dei quali è “L’angelo del fango”.
E poi c’è la villa-limonaia di Bacci con ancora il suo patrimonio culturale da esplorare, fatto di opere d’arte, di diari, di foto, di libri, di carteggi privati con molti protagonisti della vita letteraria e artistica italiana ed europea, da Bigongiari a Ugo Ojetti. Un fondo prezioso che il figlio anni fa aveva deciso di mettere a disposizione della città perché ne nascesse una Fondazione, un progetto nato da un’idea di Francesco Bacci e del professor Franco Cardini, una realizzazione da dedicare al genio toscano e della quale fu messo a parte anche l’allora sindaco Matteo Renzi che ne fu entusiasta e sposò, un progetto che però purtroppo………. non è mai partito! Renzi, Renzi…..!!!
[Il quadro scelto per questa effemeride, “Pomeriggio a Fiesole”, è un’opera di Baccio Maria Bacci, oggi nel Corridoio Vasariano di Firenze. Bacci è – autoritratto – il giovane seduto al tavolo con il cane; davanti a lui, con la chitarra, l’amico artista Guido Peyron. La finestra è aperta sul panorama delle colline fiorentine] (da Effemeridi del giorno su Fb)