Tottiani e non (ammesso che ce ne siano), minoranze eretiche spallettiane, antipallottiani – e, vista la contingenza, nemici pure di Kevin Spacey, l’Underwood di House of Cards: l’amico del mio amico è mio nemico -, chi per inerzia, chi perché non può non essere l’anno buono, chi perché Di Francesco è l’allievo di Zeman (o forse questo è meglio non ricordarlo), chi perché Nainggolan ha rinnovato, chi perché Roma-Inter non è mai come le altre e con Spalletti dall’altra parte ancora di più. L’Olimpico pullula di odori aspri, ricordi ingialliti come le pagine del paso doble di Amantino Mancini, ora rimpiazzato dalle movenze di Perisic, come il sardonico cucchiaio di Totti che fu (almeno un tifoso su due ha la sua maglia, e solo allora si comprende con dolcezza come una fugace inquadratura sul tabellone del Pupone incravattato sprigioni la forza di un culto), come le staffilate di Adriano.
Beffa pt.1: la Roma spadroneggia
Accanto ai santi (Totti e Zanetti), poeti (Batistuta e Ronaldo) e navigatori (Maicon e Mancini tra gli ultimi), dunque, ci sono sempre state le beffe. E anche questa volta tutto fila secondo il ricorrente canovaccio boccaccesco. La Roma si presenta compatta, con una difesa chiusa ma duttile (l’assenza del terzino destro ovvero come fare di necessità virtù), a quattro con Kolarov che in fase di possesso si alza, lasciandone tre dietro, e Nainggolan che si reinventa esterno destro. Perotti, il pupillo Defrel e Dzeko franchi tiratori. L’Inter dell’innominabile cambia poco dalla prima in campionato: Borja Valero va a ridosso di Icardi e in mediana spunta Gagliardini, affiancato dal metronomo e camaleontico Vecino. Eccezion fatta per un’occasione divorata dal duo Candreva (mi ritorni in mente)-Icardi, ipnotizzati da Allison, e per una decina di minuti di sterile accademia, la Roma prende a pallettate Handanovic e i guardiani Miranda e Skriniar, che fanno quello che possono, dovendo anche badare a D’ambrosio e Nagatomo, troppo spesso travolti dalle percussioni giallorosse. E così, dopo un palo di Kolarov – botta da fuori -, Nainggolan converge e pennella alle spalle della linea difensiva per Dzeko: aggancio di petto e gol. Non finisce qui. Sempre il belga – che ha appena lasciato la Nazionale – va a botta sicura dal limite dell’area, scheggiando il palo ancora rovente.
Beffa pt.2: tra Boccaccio e Boskov…
Il secondo tempo sembra non voler cambiare musica: Perotti – poco prima finito giù in area di rigore per un dubbio contatto con Skriniar, Var non pervenuta e Irrati statico in un dubbio amletico (“che faccio?”) – naviga a vista indisturbato sull’out di sinistra, salta tutti e sprigiona un destro che si schianta ancora sul legno. Ma a tutti non sembra importare più di tanto: c’è ottimismo, la Roma diverte e l’Inter è imbambolata. “Menomale che c’o semo tolto a Lucianone…”, sembra lo scherno del giorno del Decameron. Eppure Lucianone ha qualche asso nella manica e se lo gioca. Via Nagatomo e l’opaco Gagliardini – che sfigura davanti al deus De Rossi -, dentro il nuovo arrivato Dalbert e l’esteta Joao Mario. In un break senza troppe speranze, Candreva – sulla testa dell’ex laziale c’è ancora una taglia bella pesante – fa passare il pallone in un pertugio. Icardi, assente fino al ’60, lo raccoglie e, girandosi quasi in spaccata, infila Allison. S’insinuano mormorii: i due innesti funzionano – Dalbert salva su un pallonetto di El Shaarawy, faraone con velleità emulatrici dell’ottavo re – e la Roma, che sempre mantiene il pallino, piano piano arranca. E si fa trovare stanca di fronte allo strappo fatale di Joao Mario, che scarica su Perisic, che mette da parte la torpidezza e, dopo l’usuale discesa, scarica basso su Icardi. L’argentino, in un fazzoletto, aggancia e in torsione, con un colpo da biliardo, firma il vantaggio. Sull’Olimpico cala un silenzio incredulo che accoglie inerme il sigillo di Vecino, servito da un’altra sgroppata di Perisic.
E’ successo l’impossibile. L’opportunismo – beffardo e non convincente, per carità, e ci mancherebbe – ha punito la pazienza e la costanza meritoria. Spalletti stringe la mano a Di Francesco e aggiunge: “Bastava che solo uno di quei pali fosse gol”. L’onore alle armi è l’onore alle armi, Di Francesco lo sa, per quanto crudele. Non gli resta che recriminare per il rigore non concesso: “Non alleno più il Sassuolo, pensavo che certe cose qui non succedessero”. La Var non fa contento proprio nessuno. Neanche Boccaccio. E probabilmente neanche Boskov: assodato che “partita finisce quando arbitro fischia”, “rigore è quando arbitro fischia” chiama in causa non poche grane…