Pastoso e agrodolce, Miele è un film la cui consistenza si regge ad una robusta architrave fatta di cenere che si nasconde sotto un tappeto che la macchina da presa non indugia a mostrare. La cenere sotto il tappeto è una metafora utile per indicare tutti quei temi etichettati come scomodi o pericolose dalla così detta società civile, le cui credenze e modalità di comportamento si riflettono spesso nel contenuto dei materiali artistici. Valeria Golino, in questo caso regista del film, riporta magistralmente la lezione del miglior cinema italiano trasferendo in immagini il dramma di persone che scelgono la strada che porta ad una volontaria e premeditata eutanasia. Bordate di musica new wave scandiscono i momenti di raccoglimento della protagonista interpretata da Jasmine Trinca, Irene, colei che si assume l’arduo compito di esaudire l’ultimo desiderio dei condannati, compito che svolge con mestizia, compostezza e assenza di giudizio, un freddo calcolo mosso però da un distorto senso di giustizia, operato da una persona che ha visto l’amore venire a mancare troppe volte.
Miele è la morte che arriva di soppiatto, che sembra non lasciare scampo ma che ad un certo punto sembra fermarsi attorno al cinismo dell’ingegner Grimaldi, il quale si rivelerà il perno per l’umanizzazione di Irene, la scintilla che proviene da un’esistenza vista come apparentemente insensata, che però le consentirà di guardarsi dentro senza riserve, di affidarsi al vuoto senza paracadute. Se il cinema è uno specchio, Miele rappresenta il sottile confine tra la scelta del declino vista come sottrazione ad un’agonia ineluttabile e la vitale affermazione della propria volontà, il principale motore del proprio senso della vita.