Il libro più bello di Mario Vargas Llosa si intitola “Conversazioni nella Cattedrale”, ma i dialoghi di cui si parla nel romanzo non avvengono in una chiesa particolarmente grande e importante, bensì nel bar di Lima chiamato proprio così, La Catedral. Invece non basterebbe il talento del Premio Nobel, né di centinaia di altri scrittori, per raccogliere e raccontare il magma di conversazioni, di emozioni e di umori che nell’arco di cent’anni si è condensato sotto le volte di un’altra Cattedrale, che ieri ha chiuso per sempre i battenti.
Dopo un secolo di onorato servizio è infatti andato in pensione lo stadio San Mamès, “covo” leggendario della squadra più leggendaria del mondo: l’Athletic Bilbao, la società basca che contende al Barcellona (e secondo molti con ancora maggior diritto) la qualifica del tutto speciale di «Più di un club di calcio». Ieri sera si è giocata l’ultima partita ufficiale nel tempio della squadra biancorossa, ribattezzata appunto “La Catedral”, uno splendido stadio all’inglese costruito nel 1913 e poi rimaneggiato per ospitare le gare dei Campionati del Mondo del 1982.
Athletic-Levante era la classica partita di fine stagione, nella quale entrambe le contendenti non avevano più nulla da chiedere al campionato, se non di finire il prima possibile per andare in vacanza a ritemprare nervi e muscoli dopo una stagione faticosa e stressante. Eppure da giorni i quarantamila posti del San Mamès erano esauriti, manco fosse una finale di Copa del Rey o uno scontro diretto per aggiudicarsi la Liga.
Nessuno a Bilbao voleva perdersi l’ultima apparizione dei biancorossi sulla cancha della Catedral, dove giocatori, dirigenti e tifosi del club basco per eccellenza (l’altra squadra importante della regione, la Real Sociedad di San Sebastiàn, è sempre stata considerata un po’ troppo spagnolizzata, a cominciare dal nome…) hanno vissuto le loro gioie più grandi: gli 8 titoli spagnoli (l’ultimo nella stagione 1983-84), le 23 coppe nazionali, l’unica Supercoppa di Spagna e i 16 titoli del campionato basco, torneo che oggi non si disputa più.
Gioie, dicevamo. Ma anche grandi delusioni, come la mancata vittoria della Coppa Uefa nel 1977 a vantaggio della Juventus, che se l’aggiudicò solo per aver segnato un gol in trasferta, proprio nella Catedral (1-0 a Torino, 1-2 a Bilbao); o come la doppia sconfitta nella doppia finale dello scorso anno: in Europa League (0-3 con l’Atletico Madrid) e in Copa del Rey (0-3 con il Barcellona di Messi).
Com’è noto il club basco tiene molto alla propria identità e tradizione: da sempre tessera soltanto giocatori baschi o di origini basche, oppure che abbiano imparato a giocare a calcio nei circuiti giovanili baschi. Tre anni fa un sondaggio compiuto tra i tifosi circa la possibilità di tesserare giocatori stranieri ha portato ad un 94% di risposte negative. Una timida apertura c’è stata invece sulla possibilità di tesserare giocatori “oriundi” (stranieri con origini basche): il 52% ha detto sì, a patto che si tratti di prime generazioni (con genitori o nonni baschi) oppure che abbiano iniziato a giocare nelle giovanili di squadre basche o quanto meno con provata fede calcistica “rojoblanca”.
Un’altra caratteristica, che per molti anni ha reso l’Athletic un club unico al mondo, è stato il rifiuto di “sporcare” la camiseta con uno sponsor. L’unica eccezione risale alla Coppa Uefa del 2005, quando la squadra entrò in campo con la scritta “Euskadi” (Paesi baschi), patrocinante il governo regionale. Poi nel 2008 la capitolazione al calcio moderno, ma sempre con stile: lo sponsor (con scritta piccola e poco invasiva) è infatti la compagnia petrolifera – rigorosamente basca – Petronor.
In un contesto così identitario, si può immaginare come la tifoseria abbia accolto la notizia dell’abbandono dello storico San Mamès e della costruzione di un nuovo stadio. Ma poiché sono baschi anche dirigenti e soci e l’attaccamento alla tradizione non è puramente formale, si è subito trovato un sistema per salvare capra e cavoli: il San Mamès Barria (Nuovo San Mamès, in lingua basca) è sorto infatti esattamente di fianco al vecchio stadio, come si può vedere dalla foto.
E per mantenere un legame anche fisico con l’antico campo, una parte dell’impianto è addirittura sovrapposto al catino centenario. Così da condividere un pezzetto di prato, assicura la dirigenza bilbaina, che garantisca la continuità fra vecchio e nuovo, fra passato e futuro, fra tradizione e innovazione.