Presentiamo un brano tratto da ‘Donna come’ di Curzio Malaparte, opera del 1940, ristampata da Arnaldo Mondadori sino al 1959 e poi dimenticata (fino al 2002 quando ci fu una ristampa per Vallecchi). Quest’opera oggi meriterebbe un’analisi nuova al fine di riascoltare una voce essenziale ed elegante; una voce storica che creò una scrittura unica, vera, coinvolgente.
Di recente abbiamo segnalato le vicende dell’archivio Malaparte. Domenica 16 giugno, il Corriere della Sera riferisce che, dall’archivio, è venuto fuori un testo in lingua francese dedicato Gino Bartali, atleta amato dallo scrittore toscano. Il testo non è firmato ma, secondo lo storico Matteo Noja, è da attribuire alla penna di Curzio. Anche per questo, rinnovare l’interesse sull’opera malapartiana, che esprime ancora esperienze ed estetiche da codificare.
Indichiamo anche la pubblicazione di Giuseppe Panella, ‘L’estetica dello choc’ (2014), da poco ristampata dall’ editore Clinamen di Firenze. Il lavoro critico di Panella inquadra il tema della letteratura malapartiana e del suo ‘effetto choc’, un effetto che costringe il lettore a confrontarsi con un’estetica letteraria intensa e con la bellezza distrutta dagli eventi del secolo breve.
Da ‘ Donna come me’ – Capitolo ‘Città come me’
“Gli uomini li vorrei d’alta statura, e magri, dal viso bruno, dai capelli neri e lisci. Intelligenti e furbi, lavoratori e sobri, cui piacesse il vino, ma con misura e, direi, con arte, perché l’allegria non voltasse mai in tristezza o in furore. Amanti di svaghi onesti e avidi più di pace che di ricchezza. Ma una certa segreta inquietudine mi piacerebbe metterla negli spiriti, ché gli uomini troppo soddisfatti, troppo sicuri di sé e degli altri, si rilevano incapaci di grandi cose. Li farei inquieti e incerti del futuro, senza, tuttavia, rammarichi o nostalgia del passato. Il rispetto delle tradizioni non dovrebbe mai giungere al punto di farli nemici del nuovo. Gelosi, ma di donne, di cavalli, di cani, non di ricchezze , di potenza o di fortuna. Una gelosia non fosse né politica né sociale, bensì solo morale, e si volgesse contro i più intelligenti e i più audaci. Come si conviene in ogni città onesta, dove nessuno è profeta.
Le donne le sceglierei d’alto seno, di fianchi generosi, di belle spalle rotonde: e di bocca larga, segno di natura franca, aperta, cordiale, le labbra tagliate al riso e al canto. Gli occhi un po’ a mandorla. La fronte libera e nobile, i capelli scuri, con qualche riflesso di rame intorno alle tempie. La gloria di una città sono le donne, la forza dei popoli nasce tutta dal loro grembo. Così le vorrei generose forti: ché se un uomo, partendo per la guerra , lascia a casa una donna gretta, arida e vana, si mostrerà cattivo soldato. Ma se lascia a casa una donna una donna forte e coraggiosa , affronterà il nemico con furore, sembrandogli quasi di dover difendere la sua casa, il suo letto, i suoi bambini.
Di bambini vorrei che la città fosse piena , intenti a giochi, ai ruzzi, alle incruente battaglie. Che l’aria suonasse da mattina a sera delle loro risa, dei loro gridi, delle loro voci serene. Una città che piacesse ai bambini. E vorrei che tutto vi fosse ingenuo e infantile: che la gioia libera e pura dell’infanzia, che l’innocenza di quell’età meravigliosa e segreta si vedesse nelle pietre, nelle foglie, nel colore del vento, nel lastrico delle strade, nelle facciate delle case, s’udisse nel cinguettio degli uccelli, nello stormire delle fronde, nel mormorio delle fontane, fine nelle voci degli uomini e nel canto delle campane.
Anche vorrei che la sera, in qualche stradina dietro le carceri, le ragazze di una casa dalle persiane accostate uscissero sulla soglia a godersi il fresco, e spandessero intorno, nell’aria tiepida, un oscuro odore di crema e di rose sfatte. Le ragazze mezze nude, vestiste di camicie corte, trasparenti, o di vestaglie di trine e di galloni di raso. Tristi e sboccate, di quelle da pochi soldi, che ti sorridono grattandosi la schiena.
Una casa come questa ci vuole, in una città per bene: come ci vuole il Municipio, il Tribunale, le carceri, l’ospedale, il camposanto e il Monte di Pietà. Ma quel che proprio ci vorrebbe, e non se ne può fare a meno, è una macchia scura sul lastrico di qualche vicolo o meglio ancora in mezzo alla Piazza del Comune. Una goccia di sangue, e nessuno sapesse com’è piovuta, chi c’è morto, e perché. Una goccia rossa, appena sbiadita: e ne il sole, né il vento la potessero asciugare, né tutta l’acqua d’autunno riuscisse a lavarla. Che fosse come una macchia sulla coscienza della città: poiché una ragione di rimorso e di paura ci dev’essere, in una città, se si vuole che sia perfetta”.