![Il romanzo della Craveri](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2017/07/P4246631-310x344.jpg)
Anche se, in effetti, la frase esatta pronunciata dal principe di Talleyrand fu: “quelli che non sono vissuti prima del 1789, non conoscono la douceur de vivre“! Come noto, nel 2016 il “Premio Acqui Storia” – che degnamente sta ora approntando l’edizione del Cinquantenario – ha festeggiato i suoi primi 49 anni con il record assoluto di libri e di case editrici partecipanti, a conferma e dimostrazione della serietà, dell’autorevolezza, della popolarità, non solo italiana, ma europea, dell’ “Acqui Storia”.
La giuria della sezione storico–divulgativa, che annoverava 98 volumi in concorso aveva scelto i 5 finalisti: Pierluigi Battista, Mio padre era fascista, Mondadori; Oleg Chlevnjuk, Stalin. Biografia di un dittatore, Mondadori; Benedetta Craveri, Gli ultimi libertini, Adelphi; Alessandra Necci, Il diavolo zoppo e il suo compare, Marsilio; Stenio Solinas, Il corsaro nero Henry de Monfreid l’ultimo avventuriero, Neri Pozza. Nel settembre scorso, per la sezione storico-divulgativa la vittoria è andata ex equo a Stenio Solinas e Pierluigi Battista.
Nel ponderoso volume Gli ultimi libertini, Adelphi, 2016 (pp. 620), la francesista Craveri ricostruisce la vita quotidiana dell’aristocrazia parigina alla vigilia della Rivoluzione francese. Come ha scritto Pietro Citati, in una recensione pubblicata su “Il Corriere della Sera”:
Quando abbiamo finito di leggere il bel libro di Benedetta Craveri ci sembra di vedere parole che volano nell’aria, domande e risposte incessanti e inesauribili. Siamo nel regno di Luigi XVI e di Maria Antonietta, nei primi anni della Rivoluzione, prima che ogni cosa precipiti nel Terrore: viviamo nella vasta aristocrazia francese, dove tutti sono legati in una immensa famiglia. «Niente era più bello — disse qualcuno — che avere vent’anni nel 1774», quando l’avvento al trono di Luigi XVI suscitò una moltitudine di speranze, e sembrò annunciare l’inizio di una nuova epoca; o addirittura la realizzazione dell’utopia. In realtà, come disse Caterina di Russia, «la Francia era molto febbricitante e molto malata». Le sette vite, che Benedetta Craveri racconta nel suo libro, hanno il loro cuore nella Corte. Il duca di Lauzun disse di aver trascorso i primi anni della sua infanzia sulle ginocchia dell’amante di Luigi XV, madame de Pompadour. Spesso gli aristocratici erano figli di membri della famiglia reale: questi si intrufolavano nelle case dei sudditi e generavano dappertutto figli, che talvolta non conoscevano la propria origine. Quasi tutti avevano due padri: quello naturale e quello ufficiale. Dovunque c’erano ménages à trois, nei quali marito, moglie, amante della moglie vivevano in perfetto accordo. C’era molto libertinaggio: irrequietezza erotica; talvolta passioni trascinavano con sé aridi cuori. C’era sopratutto amicizia.(1.IV.2016).
Protagonisti del saggio, che è un esempio di sofisticata, rigorosa divulgazione, tre conti, due duchi, un visconte e un chevalier poi promosso marchese. Erano Lauzun, De Ségur (Joseph-Alexandre ed il fratello Louis-Philippe), Brissac, Narbonne, Boufflers, Vaudreuil. Dediti ai piaceri dello spirito come ai godimenti della carne. «Ma anche grandi lavoratori: diplomatici, funzionari, poligrafi, viaggiatori»; nonché soldati leali e solerti di Sua Maestà. «Nobili riformisti, salutarono con entusiasmo la convocazione degli Stati Generali nell’89. Non mettevano in discussione il Re, ma si sarebbero trovati perfettamente a proprio agio in una monarchia costituzionale». Però la storia francese prese un’altra strada. Quella del «rasoio nazionale», la foga eliminazionista del Regime del Terrore, che ebbe inizio nel luglio 1793 ed ebbe fine (ma la ghigliottina continuò a lavorare in una Francia senza pace), 12 mesi più tardi, con la reazione termidoriana. Ucciso Robespierre, venti giorni dopo la sua morte i teatri di Parigi tornarono liberi.
Prima di proseguire nella presentazione del godibilissimo saggio, pare opportuno qualche cenno sull’autrice, i familiari, gli studi, l’ambiente che lo hanno generato.
![Benedetta Craveri in un incontro a Bari con il francescista Fiorentino e l'assessore comunale Silvio Maselli](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2017/07/benedetta-craveri-dolceamaro-02-310x160.jpg)
Benedetta Craveri (1942) è figlia di Raimondo Craveri ed Elena Croce (e quindi nipote di Benedetto Croce), allieva di Giovanni Macchia, una delle massime studiose italiane di lingua e letteratura francese, materia che insegnò prima presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e successivamente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli). Autrice di saggi e monografie sulla vita intellettuale dei salotti francesi che, in età moderna, hanno ruotato attorno alla Corte di Versailles (Madame du Deffand e il suo mondo, 1982 e La civiltà della conversazione, 2001, specialmente). Il successo e la diffusione anche all’estero delle sue opere, in cui spiccano i ruoli femminili, poggia sul felice connubio di un’esposizione brillante con il rigore della trattazione storica. Madre di Margherita ed Isabella d’Amico, nate dal matrimonio con il critico e saggista Masolino d’Amico, Benedetta Craveri è tornata recentemente a sposarsi con un diplomatico francese, Benoît d’Aboville (da Wikipedia).
Il padre Raimondo Craveri (1912-1992) apparteneva ad una agiata famiglia piemontese: Giuseppe Giacosa era zio di sua madre e Guido Gozzano un amico di casa. Aveva le passioni della borghesia piemontese del tempo: la montagna, le belle case neogotiche o liberty, i mobili d’antiquariato, le buone letture, la Juventus. Suo padre Enrico fu uno stimatissimo Presidente della Juventus e lui stesso, da giovane, un attaccante che aveva giocato in prima squadra, ai tempi di Orsi e di Borel I. Raimondo era un avvocato, uomo di banca, economista, manager, molto borghese, ovviamente, ma sentiva altresì che la vita alla quale era legato, gli stava stretta. Protetto da Mattioli, fu tra i fondatori del Partito d’Azione; allievo e genero di Croce, marito della figlia primogenita Elena (1915 – 1994). Elena Croce fu saggista, germanista, traduttrice, cofondatrice di “Italia Nostra”. A lei si deve, tra l’altro, il riconoscimento del valore de Il Gattopardo: il manoscritto di Tomasi di Lampedusa, che era stato rifiutato sia da Mondadori, sia da Einaudi, fu infatti da Elena inviato a Giorgio Bassani, che lo fece pubblicare da Feltrinelli nel 1958.
Il primo marito di Benedetta fu Masolino D’Amico (1939), figlio della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico e del musicologo Fedele D’Amico, nipote dello studioso e critico Silvio D’Amico e dello scrittore e critico Emilio Cecchi. Anglista, è stato professore ordinario di Lingua e Letteratura Inglese alla Terza Università di Roma, quindi all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. La figlia Margherita D’Amico (1967), scrittrice, sceneggiatrice, giornalista, nacque, quindi, in una delle più illustri famiglie della cultura italiana del Novecento.
Anche il secondo ed attuale marito di Benedetta Craveri nasce da “magnanimi lombi”: Benoît d’Aboville (1942), Ambasciatore di Francia a Praga, a Varsavia, Rappresentante Permanente presso la NATO, dal 2005 Conseiller Maître alla Corte dei Conti. Nominato nel 2007 dal Presidente Sarkozy membro della Commission Nationale du Livre Blanc sur la Défense et la Sécurité Nationale. Benoît D’Aboville ha pubblicato saggi ed articoli su questioni di politica estera e difesa. D’Aboville è una delle grandi famiglie della nobiltà francese, originaria della Normandia, della quale si hanno notizie certe dal ‘400, da sempre prodiga nel dare al Paese, indipendentemente dai regimi succedutisi, generali, ammiragli, ambasciatori, politici, e da ultimo anche… navigatori ed attori!
«Questo libro», annuncia Benedetta Craveri nella Prefazione, «racconta la storia di un gruppo di aristocratici la cui giovinezza coincise con l’ultimo momento di grazia della monarchia francese»: sette personaggi emblematici, scelti non solo per «il carattere romanzesco delle loro avventure e dei loro amori», ma anche per «la consapevolezza con cui vissero la crisi di quella civiltà di Antico Regime… con lo sguardo rivolto al mondo nuovo che andava nascendo».
I nobili francesi erano degli incalliti individualisti: ciascuno voleva formarsi un destino ad immagine e somiglianza dell’idea che si faceva di sé stesso. Eppure, come sostenne il conte de Ségur, in quelle brillanti compagnie, per via delle frequentazioni quotidiane, i tratti distintivi dei singoli caratteri tendevano a sbiadire; tutti seguivano la moda, tutto era eguale. Divertirsi, comunque, in qualsiasi modo e maniera. Il conte di Ségur insisteva: «Noi giovani aristocratici francesi, senza rapporti con il passato e senza preoccupazioni per l’avvenire, camminavamo gioiosi su un tappeto di fiori che nascondeva un abisso». Tutti volevano piacere. Essi avevano certamente dei talenti: qualcuno fu generale, ambasciatore, consigliere di Stato, senatore. Solo pochi tra loro si accorgevano che, dietro questo desiderio di piacere, c’era una volontà di dominio che non ammetteva l’idea dell’eguaglianza.
Gli aristocratici d’Oltralpe conducevano una vita dispendiosa. Come per un diritto. Avevano case magnifiche, castelli per la caccia e la villeggiatura, servizio abbondante, viaggiavano, sovvenzionavano scrittori ed artisti, collezionavano opere d’arte, avevano la passione di scrivere. Sfruttando le qualità migliori della loro casta – «la fierezza, il coraggio, l’eleganza dei modi, la cultura, lo spirito, il talento di rendersi gradevoli» – i “libertini” succitati non furono soltanto maestri nell’arte di sedurre, ma furono dotati della «grazia somma della cultura, della curiosità, del pensiero».
Ha poi evidenziato Citati:
I prìncipi del sangue, le dame del più alto rango, i finanzieri adoravano il gioco, poiché la vita era e doveva essere un gioco; e, per avvicinarsi al loro ideale, baravano «con tranquilla audacia». I teatri erano vuoti: mancavano gli attori professionisti; i nobili e i grandi finanzieri dotavano le proprie dimore di sale da spettacolo private, dove esibirsi in compagnia degli amici. Tutto era gioco: anche la religione della Chiesa; Voltaire diceva che non si poteva chiedere ai sacerdoti di salvare le anime, ma di rallegrarle. Era un gioco la guerra, le imprese nei Paesi più lontani. Fonte di gioco era l’Inghilterra, che spesso si voleva invadere e conquistare, ma più spesso si cercava d’imitare. Dopo il 1763 un flusso ininterrotto di visitatori cominciò ad attraversare la Manica nei due sensi. I nobili inglesi erano affascinati dalla naturalezza con cui i nobili di Parigi si mettevano in scena sul grande teatro del mondo. Il culmine del gioco era la conversazione: lo spirito della conversazione, che dominava da secoli la civiltà francese, gettando la sua eco sia nella esistenza di ogni giorno, sia nella vita diplomatica. Era un’arte ed una scienza: il cuore della socievolezza e dell’arte di piacere. Vi trionfava l’allegria, la fatuità, l’edonismo, il dono mimetico, l’arte della improvvisazione, la finezza di spirito, la leggerezza frivola e grave: il dono di alternare tutti i toni; battute felici, scherzi di buongusto, follie spiritose, ricordi dei molti libri letti si inseguivano volubilmente sulle labbra dei conversatori.
L’opera è il seguito ideale, per molti aspetti, di un precedente saggio di Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, del 2001, ovvero “ciò che dobbiamo all’aristocrazia”; un’antigiacobina rivendicazione dell’Ancién Régime e del suo legato all’Europa contemporanea. Eredità che si fonda sulla pratica costante del dialogo, come era consuetudine diffusa nell’antica Atene, e che ha nelle donne delle interpreti superbe. La civiltà della conversazione, un libro di storia delle idee, ricostruisce, con grazia empatica e rigore, gli ambienti della “vita civile” francese durante il secolo XVIII ed il suo debito verso il Grand Siècle, allorché avviene la transizione dagli ideali della “nobiltà di spada” (rimpianti dal duca di Saint-Simon) alla “società di Corte”, creata dall’assolutismo monarchico di Luigi XIV. Benedetta Craveri pare arrendersi di fronte alla finesse, all’esprit, allo charme incomparabili dell’Alta Nobiltà, quasi si trattasse di un’Arcadia smarrita.
Tuttavia, il libro non si presenta come un mero esercizio di nostalgia dell’Ancien Régime, ma come il tentativo di riscattare il contributo aristocratico e femminile alla civiltà continentale. L’autrice ricrea scenari, modalità, codici di comportamento, protocollo, rituali e vocabolario di un’alta società, che giocava ad apparire più fatua e superficiale di quanto non lo fosse in realtà. La “douceur de l’Ancién Régime” diventa così un patrimonio, sconfitto eppur irrinunciabile, della cultura europea. Parigina “civiltà aristocratica della conversazione” contro l’ “introspezione cupa ed intollerante” del plebeo ginevrino Rousseau. Attitudine, in ogni caso, ammirativa, forse eccessivamente compiacente e complice, che alcuni critici già allora avevano rimproverato alla Craveri.
Dei gentiluomini riscoperti dall’autrice ne “Gli ultimi libertini” – nel senso di seguaci del libertinismo, associato a scetticismo, edonismo ed epicureismo – due terminarono nel gran tritacarne apprestato dalla Rivoluzione. Ad uno la ghigliottina fu risparmiata. Ma il popolaccio imbelvito lo linciò facendolo a pezzi, strappandogli il cuore e scagliandone la testa nel salotto della sua amante. Al secondo andò relativamente meglio. Affezionato fino all’ultimo ai piaceri della vita, mentre aspettava l’esecuzione si fece portare in carcere ostriche e vino d’Alsazia. Quando giunse il boia lo invitò a bere con lui: «Dovete aver bisogno di energie, col mestiere che fate». Da veri figli delle Lumières ambirono ad avere un ruolo nei grandi cambiamenti che si preparavano e dopo il 1789 seppero affrontare le conseguenze delle loro scelte – l’esilio, talora la povertà, il patibolo – senza mai perdere l’incomparabile panache che li distingueva.
“Le style est l’homme même”, disse il naturalista conte di Buffon. «L’hanno accusata di essere una società effeminata» puntualizza la Craveri, «però stoicismo e sprezzo della morte erano tratti distintivi di quell’aristocrazia». Un aplomb che potè essere scambiato per remissività. «Davanti alla furia giacobina, la più antica e coraggiosa nobiltà d’Europa si sarebbe lasciata arrestare docilmente, giacché fare strepito sarebbe stato inutile e di cattivo gusto, e l’importante, per gli aristocratici, era rimanere ciò che erano: gente di buona compagnia». Molti ascoltarono la sentenza che li condannava alla ghigliottina «con la stessa indifferenza che se si fosse trattato di andare all’opera».
Non erano i mostri degenerati e viziosi, evocati da certa libellistica egualitaria, e che la fantasia popolare dei sobborghi operai di Parigi amplificava, equiparando tutti i nobili al marchese de Sade. I libertini erano per il “progresso”, contro la superstizione ed il dispotismo. Erano stati privilegiati dalla nascita (come la medesima Craveri due secoli dopo, ad esempio), eppur non si sentivano colpevoli. Molti, contrariamente ai fratelli del Re, neppure si esiliarono a Coblenza o fuggirono come Chateaubriand. Quando contro di loro si scatenò una feroce “pulizia di classe”, stalinista ante litteram, essi semplicemente accettarono, con rassegnata serenità, la situazione. Ciò che importava non era tanto l’umana esistenza, che prima o poi finisce, quanto l’eleganza, del pensiero in primis, con la quale si vive e ci si diverte.
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay