Il primo ricordo che ho di Giorgio Almirante è un ricordo abbastanza “umido”. Non in senso lato, ma di un’umidità tutta reale. Ero appena arrivato, sul treno della notte Roma-Pescara, nel grande albergo di Montesilvano dov’era ospitato, nel settembre del 1971, il primo corso per dirigenti politici del Fronte della Gioventù. Colpa dei sedili di legno di una vecchia terza promossa seconda, o merito dei molti corsisti che stazione dopo stazione lo avevano affollato animandolo di discussioni e cori, non ero riuscito a chiudere occhio. Per levarmi il sonno di dosso, subito dopo aver preso possesso della camera, non avevo trovato di meglio che fare un tuffo nella piscina dell’albergo e ora, vestito decorosamente ma col costume gocciolante in mano, mi trovavo nella hall per ritirare le chiavi.
Anche Lui si trovava lì. Imbarazzato per la situazione e afflitto dalla mia adolescenziale timidezza di diciottenne che sapeva tutto di Evola, di Nietzsche, e di un Guénon letto nell’edizione originale francese, ma non sapeva nulla della vita, abbozzai un labile cenno di saluto, che non fu ricambiato. Nella settimana che seguì non ebbi più contatti diretti con lui; ebbi modo però di farmi una prima idea dell’uomo il cui avvento alla segreteria del partito era coinciso con la mia adesione alla Giovane Italia (il mio primo atto politico era stata la partecipazione ai funerali del suo predecessore Michelini, in cui mi fu affidata da reggere la corona dell’ambasciata spagnola).
Debbo aggiungere che di contatti diretti neppure ne cercai. In quel tempo, con la beata faziosità dei vent’anni, noi giovani eravamo schierati in buona misura con Rauti e con Pino Romualdi, che prendevamo un po’ in giro per le sue pose ducesche e il suo compiaciuto non smentire la voce che lo voleva figlio naturale di Mussolini, ma rispettavamo come padre di Adriano e fondatore dell’“Italiano”, un mensile d’ispirazione longanesiana che pubblicava a sue spese, attingendo (bei tempi!) agli onorari da parlamentare.
Con Almirante avevamo un rapporto che si potrebbe definire di ammirazione conflittuale, che trovò conferma anche in quell’occasione. Naturalmente, non ricordo tutti i suoi interventi negli incontri, che seguì da cima a fondo, con straordinaria attenzione, com’era nel suo stile. Ricordo però il suo discorso conclusivo, che rappresentò un’eloquente tirata d’orecchie nei confronti di molti di noi, ma che finì per scatenare nella sua conclusione applausi scroscianti, per quella caratteristica del pubblico di destra di applaudire oratori che esprimono concetti opposti, purché li esprimano bene, che faceva imbestialire Marco Tarchi. Almirante ebbe parole di sarcasmo nei confronti di qualche congressista sommariamente acculturato, che citava Spengler chiamandolo Splenger, di critica nei confronti degli “evoliani”, identificati con i lectores unìus libri, di blanda ironia nei riguardi delle cene extra moenia in cui qualche dirigente si era intrattenuto con Rauti. Ma soprattutto, prendendo spunto dal maltempo che in quella fine settembre aveva reso l’Adriatico dannunzianamente selvaggio, ci ricordò che fuori dell’albergo ci attendevano “un cielo e un mare in tempesta” da un punto di vista non solo meteorologico. Un monito che, presi com’eravamo dall’euforia per il trionfo del Msi alle amministrative siciliane, ci parve peccare di un eccesso di pessimismo.
Quando incontrai di nuovo Almirante la profezia si era invece avverata. Era la primavera del 1975 e gli anni di piombo incombevano su tutti noi. A Firenze, però, si era verificato uno strano miracolo. Alle elezioni universitarie – le prime dopo che il ’68 aveva decretato l’ostracismo ai “parlamentini” studenteschi – il Fuan era riuscito a ottenere, anche per il fortunato gioco dei resti, un seggio alla facoltà di Architettura, la più rossa d’Italia. Giorgio Almirante era stato invitato a festeggiare l’evento.
Pranzammo insieme a lui in un ristorante di campagna. Al termine del convivio, uno studente che era stato magna pars nel successo – un estroverso fuori corso e fuori sede abruzzese – prese la parola. Tremai per lui, ricordando i rimbrotti di quattro anni prima, anche perché avevo intuito, dal modo in cui la sua destra aveva indugiato sul deretano non ritroso di una cameriera callipigia, che il ragazzo era un po’ avvinazzato. E in effetti il discorso che tenne oscillò fra l’estremista e lo sconclusionato. Almirante però non se ne adontò e replicò cortesemente come se prima di lui avesse parlato Demostene.
Al sollievo per la burrasca scampata seguì una sottile malinconia. Compresi che Almirante non era più il leader di un movimento in ascesa, ma il segretario di un partito oggetto di un’offensiva giudiziaria, parlamentare e soprattutto extraparlamentare senza precedenti e non poteva permettersi di tirare le orecchie a quei giovani che ogni giorno rischiavano la pelle nelle scuole, nelle università, nelle piazze, nelle fabbriche. Pensai ai funerali cui aveva dovuto partecipare, alle aggressioni che aveva dovuto subire, alle calunnie cui non aveva potuto ribattere e me lo figurai “bello di sventura” come l’Ulisse del suo diletto Foscolo.
Incontrai Giorgio Almirante molti anni più tardi, al termine della sua odissea terrena. L’epoca delle persecuzioni era finita e i suoi funerali venivano trasmessi in diretta televisiva. “Funerali fascisti”, titolò (mi sembra) il “manifesto”, e non a torto. Dopo il passaggio alla Destra nazionale – voluto da quello stesso segretario che da eterno avversario di Michelini inneggiava alla “sinistra sociale”, – la scissione demonazionale e la successiva “rimissinizzazione” del partito, poco o nulla era cambiato nell’iconografia e nella scenografia. Mancava solo la corona dell’ambasciata di Spagna, anche perché la Spagna non era più franchista.
Quei funerali furono l’apoteosi e al tempo stesso la disfatta di Giorgio Almirante. Furono il suo trionfo perché dimostrarono che era riuscito a guidare il suo partito nella palude della prima repubblica salvaguardandone l’identità, tenendolo lontano dal contagio della partitocrazia che, di lì a quattro anni, avrebbe travolto lun’intera classe dirigente. E l’aveva fatto guadagnandosi il rispetto di molti avversari e i funerali in diretta in quella Tv di Stato che fino a pochi anni prima lo accoglieva, riluttante, solo nelle tribune politiche.
Ma rappresentarono anche la sua sconfitta, perché dimostrarono che Almirante non era riuscito a fare del suo partito una forza di governo, a farlo uscire dalle sacche del neofascismo, a farlo a abbandonare la tentazione di gestire la rendita elettorale del voto nostalgico e/o di protesta, e aveva finito, trascorsi gli anni di piombo, per considerare l’arco costituzionale un comodo riparo dalle intemperie della politica.
A differenza del suo predecessore Michelini, non era riuscito a portare il Msi nell’area di governo e nel socialismo tricolore e nelle avances di Craxi aveva scorto più un tentativo di abigeato del volo nostalgico che l’occasione per sottrarre al loro isolamento gli “esuli in patria”.
Fu questo il vero errore di Giorgio Almirante. Non l’avere scritto sulla “Difesa della razza” (in prevalenza reportages etnografici sulle varie regioni italiane), colpa difficilmente rinfacciabile in un’Italia che ha avuto per presidente della Corte Costituzionale l’ex presidente del Tribunale supremo della Razza. Non l’avere, come fu accusato, espresso tolleranza per il terrorismo di destra, da lui sempre condannato: e neppure l’aver paragonato, al congresso del Msi nel 1970, le ausiliarie della Rsi alle “ragazze di Tombolo”. Ma l’essere rimasto, a differenza del fascista “storico” Michelini, un uomo della Repubblica sociale, che percepiva la sconfitta come un blasone e il frigorifero in cui venivano conservati – secondo la definizione andreottiana – i voti missini una garanzia contro le infezioni batteriche della prima repubblica.
L’esperienza insegna purtroppo che i bambini tenuti troppo a lungo sotto una campana di vetro sono i primi a soccombere al contagio al primo contatto con gli altri, per l’impossibilità di maturare gli specifici anticorpi. E quanto è avvenuto a buona parte della vecchia classe dirigente missina ne costituisce – spiace dirlo – una conferma.
Eppure, astrazion fatta per i limiti del politico, rimane l’uomo. Di cui la stessa mediocrità dei successori dimostra l’inusuale grandezza. Rimane lo straordinario oratore, il parlamentare espertissimo, che il Parlamento, proprio per eccesso d’amore, come sostiene Paolo Armaroli, processò in un celebre volume. Rimane il capo partito divenuto, man mano che i suoi baffi s’imbiancavano, l’umanissimo pater familias di una comunità umana tenuta insieme anche dal suo esempio. Rimane il padre putativo che accompagnò all’estremo saluto troppi figli, vittime di una guerra civile assurda, di anni formidabili, nell’accezione latina del termine, per cui solo un folle o un criminale può nutrire nostaglia. Rimane il papà di Venturini, di Falvella, dei fratelli Mattei, di Mantakas, di Ramelli e di tanti altri.
Ed è per questo che, nel ricordarlo, e ricordando con lui gli anni di una giovinezza acerba e perduta, non posso fare a meno di avere gli occhi umidi, magari nascondendoli. Come il costume da bagno che quella mattina di settembre cercai invano di dissimulare di fronte a lui.