Emmanuel Macron ha vinto in Francia rivolgendo contro il sovranismo le dinamiche di marketing elettorale che hanno portato al successo la Brexit prima e Trump poi. S’è voluto dare Marine Le Pen a favorita e questa è apparsa ai francesi come il moloch da abbattere. Macron, in rimonta, suscita entusiasmo. La Le Pen, in difesa, si sente sotto assedio. E perciò perde.
Ma che Marine Le Pen vincesse in Francia era un’illusione che nemmeno lei, realisticamente, poteva coltivare. Tant’è vero che se n’è andata a ballare (e ha fatto benissimo) mentre in tutta Europa si alzavano lacrime e i cuori si infrangevano con la stessa velocità del fulmine dietro alla Piramide del Louvre.
La grande bellezza (che non c’è)
La vera questione, oltre peana, lacrime e analisi catastrofiste, è un’altra: il sovranismo (o populismo?) deve decidere che vuole fare da grande. Se vuol continuare a far il tifo, qua e là, per i candidati più (o meno, come nel caso dell’olandesino alla lacca Wilders) schierati contro i vecchi elefanti del potere internazionale o se vuole farsi idea, coerente e politica. Allo stato attuale, il sovranismo (o populismo?) è una raccolta di figurine senza troppi punti in comune, solo per creare la speranza di un precedente sul quale lucrare elettoralmente.
Già perché il sovranismo (o populismo?) si schiera quasi ovunque sull’Asse del Male e non lo fa (ahimé) per vezzo estetico, cosa che di per sé la porrebbe su un piano ideale, filosofico e persino politico superiore a qualsiasi globalista d’ogni latitudine. Almeno in Italia, nel Paese delle cento città, ci sarebbe bisogno di una sintesi, come si diceva in altri tempi. Ma nessuno vuole (apparentemente) rinunciare ai suoi più alti ideali, alle sue presunte rendite di posizioni. E nemmeno al folklore, maledetta tara d’ogni destra (e sinistra) contemporanea, che muta sempre ma rimane altamente letale.
Le due(mila) torri (d’avorio)
Le posizioni sono talmente tante che ogni riunione tra simpatizzanti anti-sistema si trasforma in un’arena gladiatoria. C’è il cattolicesimo ma pure il paganesimo tradizionale, giusto per dirne una. Lo stranissimo mènage à trois fra padani, nazionali filorisorgimentali e borbonici che manco s’accorgono come la disgregazione dello Stato nazionale cui mirano altro non fa che rendere invincibile il sovranazionalismo dell’Unione Europea che tanto dicono di voler combattere. Ma che dire di liberali, iperliberali, corporativisti, seguaci della dottrina economica della Chiesa, capitalisti illuminati, socialisti irriducibili, marxiani e combattenti addestrati alla scuola di Chicago. Se non si fa pace sulla questione dell’economia non si farà mai una proposta credibile all’elettorato.
E come se questo non bastasse, ci sono le tare genetiche che da sempre affliggono la cosiddetta “area”: il gruppettarismo, l’élitismo, l’esclusione, l’auto-emarginazione che porta alla più irrevocabile delle irrilevanze, alla faccia dei sogni egotici che s’aggirano qui, più numerosi spesso degli uomini che li coltivano.
Il risultato è l’ennesima guerra per procura, di nuovo pronti a tutt’osare su una barricata che non ci appartiene. La barricata straniera dove si presta servizio è quella di una destra plasticamente anglosassone, oggi egemone almeno nel pop.
Le allegre comari del KKK
Questa si ancora a tre principi: razza e censo, proprietà privata e protestantesimo. Priva di ogni senso estetico che non sia legato a una fumosa nostalgia, tutta personale, per cui la bellezza non è afflato di vita ma contorno urbanistico. L’eroismo è una balla per ragazzetti spensierati, o alla meglio diventa qualcosa di annacquato nel quotidiano, è l’insopportabile retorica degli angeli e dei “nostri ragazzi” (che prima offende i morti e poi i soldati). Levantina, reazionaria, permalosissima e bigotta: che pretende tutto dagli altri ma indulgenza plenaria per sé, una destra resa drammaticamente ipocrita e impotente dalla menopausa, totalmente incapace di mettere seriamente in discussione quel “sistema” contro cui sparacchia mille bestemmie.
Cosa mai, con tutto ciò, può avere in comune la destra mediterranea tutta socializzazione e quinta sponda, nazione interclassista, che poco se ne cale del Vaticano (se non per questioni di stabilità e opportunità di governo, come fu il Patto Gentiloni)? Nulla. Né si può sperare di cavalcare questa cieca e feroce tigre. Troppe esperienze passate lo sconsiglierebbero. E non perché ci sbranerà ma perché ci farebbe affogare nel ridicolo.
Ma essere “anglosassoni” paga e conviene a tutti: si va sulla pancia, si raccolgono centinaia di migliaia di like e si puntella a destra il sistema che non chiede altro di avere un’opposizione brutta, sporca e cattiva che magari esulta perché degli schifosi assassini, che a chiamarli uomini si fa torto all’umanità, hanno dato fuoco a tre ragazzine rom in un camper. Tutto ciò è sicuramente più facile che leggere Alain de Benoist. E poi si sa: gli intellettuali sono la peste nera, che il Signore ce ne scansi.
Fate bei sogni
Se è questa l’ambizione, meglio togliere mano subito. Gli avversari continueranno a campare di rendita e prima o poi la moda passerà (ci si stanca e ci si abitua a tutto, eh), così ci si ritroverà nell’amatissimo ghetto (e questo castrante concetto è carissimo alla destra italiana) a ragionare del sesso degli angeli, impegnandosi a ricominciare subito una nuova raccolta di figurine, magari sperando – come un concilio di scienziati pazzi – di creare una nuova serie di supereroi fondendo un capello di Trump con il pauperismo della Kirchner.
Fino a che il sovranismo (o populismo? i confini sono davvero indefinibili) non saprà cosa vuol fare da grande, non andrà da nessuna parte. Strepiterà, sarà secondo a ogni competizione. Ma senza una strategia (da soli non bastano i leader e dovremmo saperlo dopo vent’anni), sarà una patetica accozzaglia di tromboni scoordinati e litigiosi. Capace di bisticciare persino sul suo stesso nome.