Roma – “Spesso durante questi anni ho immaginato di parlare con lui, avevo la sgradevole impressione di una amnesia collettiva, di una strisciante riabilitazione in luogo della damnatio memoriae cui i sette terroristi, condannati per la sua morte, avrebbero invece dovuto essere consegnati”. Lo ha detto nel proprio intervento alla Cerimonia del giorno della memoria Piero Mazzola, figlio di Giuseppe Mazzola ucciso assieme a Graziano Giralucci il 17 giugno del 1974 a Padova, prime vittime delle Brigate Rosse. “Non si spiegavano altrimenti – ha proseguito -le attenzioni riservate agli stessi, come ad esempio: la paventata concessione della grazia alla vigilia della celebrazione del processo di appello; la nomina da parte di un Ministro a consulente ministeriale nonostante l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; l’invito quali relatori a convegni patrocinati da qualche Consiglio Regionale; l’invito da parte di una sperduta sezione Anpi, fortunatamente subito ritirato, a consegnare attestati di partecipazione. Per avere contrastato efficacemente nel tempo tali fatti, siamo stati tacciati di essere dei vendicativi. Questo non ci ha minimamente scomposto”.
“Nel diritto romano – ha detto ancora Pietro Mazzola -costituiva causa di indegnità a succedere il non avere vendicato in giudizio, sottolineo in giudizio, l’uccisione del proprio padre. È semplicemente ciò che abbiamo fatto in fase di indagine ed in fase processuale, in modo da potere essere degni a succedere nel suo patrimonio morale. Nel 1992 con la sentenza della Cassazione si chiuse definitivamente il processo nel corso del quale nessuno degli imputati ebbe mai a mostrare effettivo pentimento o pietà per le due vite tragicamente troncate, perché con coraggio e a mani nude avevano tentato di disarmare i loro aggressori, che, tenendoli sotto tiro, volevano costringerli ad inginocchiarsi per poi incatenarli come animali. La Corte di Assise, al termine di una tormentata istruttoria, scrisse che si trattò di un omicidio cinico, crudele per le ferite particolarmente dolorose inferte, non necessario in quanto ormai inermi vennero finiti, mio padre con un colpo alla fronte e Graziano Giralucci con un colpo alle tempie”. “Sono certo che se in un immaginario colloquio potessi chiedere a mio padre: “ne valeva la pena? “, sono altrettanto certo che, ancora oggi, senza alcuna esitazione risponderebbe: “sì ne valeva la pena”, ripetendomi che nella vita ci sono due cose che non potranno mai essere tolte; il fatto di essere nati ed il fatto di dover morire, ma che vi è una terza cosa che non potrà essere tolta a meno che uno non lo consenta, la dignità; dignità tanto cara ai nostri Padri Costituenti. Il tempo è tiranno e quindi chiudo con un sogno, il sogno dei miei fratelli e mio, che il loro coraggioso esempio contagi un po’ tutti noi e che, ciascuno nel proprio ambito, riconosca appieno la dignità dell’altro. Da ultimo una nota personale, l’orgoglio di avere cresciuto i nostri figli indenni dall’odio perché l’odio è morte”, ha concluso Pietro Mazzola.