Eppure. Paolo Sorrentino è un genio. Eppure La grande bellezza non è La dolce vita. Perché è Roma che è cambiata, Mastroianni non c’è più e a Fellini oggi farebbero fare uno show in prima serata su Canale5. Roma è morta, rinchiusa nella sua eternità illusoria, marmorea come la bellezza delle sue mille statue e le sue mille chiese. Roma, la città dell’illusione ridotta a città della delusione. E se dici Roma, dici Italia. E se dici Italia, dici politica. Dici gli anni 2000, la loro stanchezza, la loro vecchiaia.
La grande bellezza, certo, se la cerchi dove vuoi trovarla se non a Roma? Eppure La grande bellezza è, semmai, “L’amara vita”, la sua fine. È la fotografia di una vecchiaia che si trascina danzante, stancamente. Quasi tenera nella sua ridicolaggine baldanzosa, ma triste, malinconica assai. Malinconica come solo la faccia di Servillo sa essere, con quelle rughe che raccontano una storia elegante e cafona, quella degli ultimi decenni. Una malinconia teatrale, diversa antropologicamente dalla malinconia eterna – quella sì – della faccia di Marcello Mastroianni.
Ah, Marcello! Perché un Mastroianni questo paese ormai non lo merita più. «Marcello, come here». Qui, dove? Dove, se anche la Fontana di Trevi ha perso la magia della notte? Non c’è eleganza, non più, è roba rara ormai: non c’è tra gli uomini, non c’è tra le donne. La grande bellezza è la Roma cafona delle terrazze chic. Ricca, ma cafona. Eppure per trovare l’orrore delle facce deformate della borghesia romana, no, non è in questo film che dovete cercarle. E Sorrentino l’ha capito, ce le ha risparmiate, non ha indugiato, perché una sola pagina di Cafonal di Dagospia varrebbe cento film, cento scene. L’orrore del reale supera ogni immaginazione, l’orgia botulinica della borghesia romana, mignotta in abiti firmati non la puoi riprodurre. Fa più schifo il vero, fa troppo schifo il vero per poterlo rendere cinema. E le terrazze di sinistra abbandonano l’impegno, l’ultima idea di socialismo allo Champagne, del progressismo, ridotto a disegno sul pelo di una vagina disperata. Inutile, ormai, provare a prendersi sul serio. Ci sono le feste, sì, e i preti, la religione, i palazzi antichi e pure la cocaina. Eppure, no, la grande bellezza non è il racconto delle feste della Roma godona, della prostituzione morale e plastica (nel senso di chirurgia) che ha imbruttito il paese.
La grande bellezza è, dunque, un film sulla vecchiaia, sul paese vecchio. Se fosse davvero questa l’Italia, allora Renzi, che ha torto, avrebbe ragione. Renzi, l’uomo della rottamazione, che oggi rinnega proprio la rottamazione, non capendo che è la cattiveria del colpo finale che manca alle nuove generazioni; ecco, se fosse vera la Roma raccontata da Sorrentino, allora Renzi avrebbe ragione: questo paese vecchio si è già rottamato, ha già perso. E lo sa. Sorrentino è un genio.
Eppure è diventato un sentimentale, ha abbandonato il tragico per raccontare con dolcezza la tragedia della vita che si avvia alla fine e fa un bilancio di sé: un trenino fatto alle feste, copri in fila; un trenino che non ha una meta, che gira attorno a se stesso. Il vuoto, ma sorridente, fino al mattino. E poi, via, a dormire. Sorrentino è un genio. Eppure la vecchiaia che racconta cerca redenzione, la sfiora, confessando la sua sconfitta.
E noi la assolviamo. Ci avete fatto male, ma la vostra notte è finita, tra feste e cocaina, ruberie e superficialità travestita da finto intellettualismo. Ora inizia il giorno, e il giorno appartiene a noi. Eppure, eppure. Eppure è solo di un film che parliamo. La vecchiaia che comanda nel mondo reale – che non è solo anagrafica, ma un modo di vedere il mondo – non ha la sensibilità dello scrittore interpretato da Servillo, che alla “fessa “preferiva l’odore delle case dei vecchi. Le vecchiaia del mondo reale è cattiva. E fa schifo: basta guardare una pagina Cafonal di Dagospia. Divora le notti e i giorni, senza bellezza. Né piccola né grande.