1.La giovane talpa “populista” ha scavato in profondità sotto il terreno su cui è stata costruita la cattedrale della globalizzazione. Uno scavo che ora sta venendo in superficie con i nuovi cicli elettorali che percorrono l’occidente annunciando la fine, od il principio della fine del nucleo essenziale della globalizzazione: la sua centrale politica.
2. Berlino, 17 novembre: il Presidente Obama, parlando delle elezioni americane, ha saggiamente detto: “non è la fine del mondo”. E’ vero, ma se non è la fine del mondo, è però la fine od il principio della fine di “un” mondo.
3. Come è stata l’America che più o meno un quarto di secolo fa ha determinato l’avvio della “globalizzazzione“, così è ancora dall’America che ricomincia la storia superando un pur recentissimo passato ed irradiando nel mondo un nuovo (o vecchissimo) modello politico: il “mercantilismo“.
Ed è per questo che è insieme sbagliato e illusorio tentare di ridurre e demonizzare tutto quanto sta succedendo parlando solo di “protezionismo“.
E ciò perché quella del “mercantilismo” è una realtà politica diversa e molto più complessa. Una formula che combina insieme sovranità nazionale e forza politica, Stato e mercato, e tutti questi elementi non isolati ma all’opposto proiettati dall’interno verso l’esterno.
La storia non si ripete mai per identità perfette, ma come per (fatale) alternanza tra fasi della storia è, quello che si sta profilando, un modello politico non diverso da quello che si è integrato qualche secolo fa in Europa, qui divenendo una delle basi costitutive della “modernità”.
E chi scrive, sottoposto negli anni passati all’accusa di “colbertismo“, crede oggi di avere titolo per parlarne, nella transizione tra un mondo che finisce ed un mondo che comincia.
Una transizione che, proprio perché prende la forma del passaggio da una fase all’altra della storia, non è e non sarà lineare, ma inevitabilmente causa di rotture di continuità, di squilibri, di confronti, forse anche di conflitti.
E del resto, e si noti qui per inciso, elementi di “mercantilismo” si trovano già oggi, se pure “in nuce“, in luoghi insospettabili. Anche in Europa. Ad esempio in Germania, dove è già in essere ed evidente la combinazione tra specifica forza interna e proiezione commerciale esterna. Con ciò che nel bene e nel male ne deriva, come causa e come effetto dell’equilibrio-squilibrio economico e politico che si sta già manifestando all’interno del nostro continente.
Qui comunque ed oggi non si tratta di giudicare, ma solo di capire cosa è successo, cosa succede ed inevitabilmente cosa succederà nel mondo. Per trarne poi le conclusioni, per formulare giudizi, per agire o per reagire, secondo le categorie soggettive e relative del bene e del male.
In sintesi: non c’è e non ci sarà la de-globalizzazione economica. E’ infatti e per fortuna ancora forte e diffusa nel mondo l’idea positiva che “i confini non attraversati dalle merci sono attraversati dagli eserciti” (Bastiat)!
In specie, ci si può certo attendere, soprattutto dal lato degli Usa, la “manutenzione”, il “fine tuning” dei grandi trattati commerciali internazionali. Ma non la loro fine, non la fine del commercio mondiale. Del resto, come dice il nome stesso, il “mercantilismo” non esclude, ma all’opposto include anche il mercato, se pure in forme diverse da quelle che si sono sviluppate negli ultimi anni.
Ma certo è in atto una particolare forma di de-globalizzazione: la de-globalizzazione politica, la fine del suo paradigma assolutistico. Una fine che oggi ha inizio proprio con l’emersione del nuovo “mercantilismo”.
4. “Flash back“. Goethe e Marx non avevano i computer, non avevano l‘i-pad, ma vedevano il futuro:
– “i biglietti alati voleranno tanto in alto che la fantasia umana, per quanto si sforzi, non potrà raggiungerli” (così nel “Faust”);
– “all’antica indipendenza nazionale si sovrapporrà una interdipendenza globale” (così nel “Manifesto”).
Queste profezie si sono infine ed insieme avverate con la de materializzazione e con la delocalizzazione della ricchezza. Così che, più o meno dopo due secoli, la globalizzazione:
– si è basata su di una tecnologia avveniristica, sulla “rete“, la sua patria;
– e si espressa in una ideologia globale e totalitaria: il “mercatismo“, l’ultima ideologia del ‘900. Anzi, forse più ancora che una ideologia, quasi una nuova religione nella quale, sia notato qui per inciso, si è comodamente immersa anche la sinistra, così tradendo i suoi ideali storici.
Nell’insieme, è stato un processo intensissimo, pur iscritto in un periodo di tempo brevissimo: novembre 1989, Berlino, la caduta del “Muro”; maggio 1994, Marrakesh: il WTO, un trattato che non è solo commerciale, ma anche e soprattutto politico; gennaio 1996, Washington: la spinta più potente verso la globalizzazione arriva con la seconda Presidenza Clinton; novembre 2001, Pechino: la Cina (l’Asia) aderisce al WTO; ottobre 2008, New York: esplode la crisi finanziaria. Ed è così che si arriva a oggi.
Qui è curioso notare come il potere della finanza si sia rafforzato, se pure “pro tempore”, proprio grazie alla crisi finanziaria da esso stesso generata. Quelli che avrebbero dovuto essere i perdenti sono infatti diventati i vincitori: non “occupy Wallstreet“, come era negli slogan di protesta, ma Wall Street che salvifica veniva ad occupare la Casa Bianca. E poi, in Europa, l’Unione europea!
5. E’ nell’insieme così che in due sole decadi, ma per la prima volta nella storia, il rapporto tra il “potere” ed il “denaro” ha visto la quasi assoluta concentrazione del primo nel secondo: la concentrazione del potere nel denaro.
È come se nella lotta millenaria e simbolica tra l’imperatore e Creso, non avesse vinto l’imperatore, ma Creso!
Ed un Creso interessato non solo a fare soldi, ma vedremo interessato anche a fare il bene dell’umanità.
Ma partiamo dal principio.
Non più un re, una legge, un ruolo d’imposta. Non più “La ricchezza delle nazioni” (e dunque la ricchezza, ma anche le Nazioni; non l’una senza le altre e viceversa, come all’origine doveva essere e per secoli è stato), ma la ricchezza da sola che, sulla “rete“, è diventata anonima ed apolide, irresponsabile e iperpotente, prendendo la forma prima sconosciuta del capitale dominante.
È stato questo l'”habitat” in cui si è formata l’ideologia, anzi la religione della globalizzazione. Il mercato “sicut Deus“: sopra la vecchia “rule of law“, sopra i Parlamenti, sopra i popoli.
6. Nella storia il rapporto tra potere e popolo è stato sempre marcato dalle “regole” scritte dal potere per governare il popolo.
Ebbene:
– nel 2016 la legislazione degli USA si è estesa per 81.640 pagine;
– nel 2015 la legislazione dell’Unione Europea si è estesa per 30.952 pagine (cui vanno tuttavia aggiunte le pagine delle legislazioni nazionali).
E questo non solo negli Usa od in Europa, perché il fenomeno della ipertrofia normativa è globale. E un fenomeno che non si spiega solo con la tendenza al “big government“.
Un fenomeno che è andato oltre le attività legislative nazionali, estendendosi su decine e decine di fabbriche normative globali. Dai circoli di Basilea all’ OCSE al WTO e, via via, alle sempre più numerose fonti sovranazionali di un nuovo “diritto universale”, versione post-moderna del vecchio diritto naturale.
Un diritto di tipo nuovo, mezzo diritto scritto e mezzo diritto naturale, tutto però unificato dal nuovo canone del “politically correct“. Un tipo di diritto nuovo, con pretesa di guidare l’umanità verso l’utopia nuova del bene universale.
7. È a questo punto che viene buona una seconda parola greca: “ὕβϱις“, la vertigine dell’onnipotenza.
Alla base di tutto questo c’è stata infatti l’idea o più precisamente l’utopia che, con la globalizzazione, si aprisse l'”anno zero” della civiltà umana. Che fosse venuto il “momentum” per creare un “uomo nuovo” e un “mondo nuovo“, entrambi forgiati proprio dal nuovo diritto universale.
8. L'”uomo nuovo” è l’uomo a “taglia unica” ed a “pensiero unico”, standardizzato tanto nel suo essere, quanto nel suo pensare.
È così che nella culla del nuovo materialismo globale si è pensato di fare nascere il consumatore ideale. L’uomo che non solo consuma per esistere, ma esiste per consumare e pensa come consuma e consuma come pensa.
Il territorio dominato dai nuovi simboli e dai nuovi totem della globalizzazione; con le icone del consumo; con le nuove agorà informatiche; con le banche, globali o centrali, attive come sinedrio della politica; con le “élite” e gli algoritmi succedanei della volontà dei popoli.
Tutto questo, nello schema di una nuova ingegneria culturale e sociale, presupponeva naturalmente la cancellazione del passato e perciò veniva per superare, per spazzare via, per travolgere i vecchi usi e costumi, i vecchi orizzonti mentali, entrando nella “vita degli altri” e qui e così per travolgere e sradicare le tradizioni, i generi, la storia.
L’ultima regola o la regola ultima, quella sulle toilettes gender negli edifici federali.
Solo così, infatti, si poteva sviluppare in forma totalitaria il codice necessario per la estensione lineare della globalizzazione.
9. Ma non solo l’applicazione quanto più estesa possibile della formula del “politically correct”.
Anche, in parallelo, l’applicazione della formula “responsabilità to protect“.
Il “mondo nuovo” che derivava dall’utopia della globalizzazione era infatti quello che, universalizzando il “diritto di intervento” e superando i patti ed i codici di Augusta e di Westphalia, poteva superare il vecchio: “cuius Regio, eius Religio“.
Non come nella “Carta atlantica” (1941), in cui i principi della democrazia erano presentati al mondo come un modello da adottare paese per paese per via di successivi ed autoctoni processi democratici.
Ma un mondo nuovo, in cui la democrazia non era (non è) più intesa come un processo da costruire ma, in nome di una generica e strumentale “responsability to protect”, concepita più o meno come una commodity.
Come un prodotto democratico istantaneo da esportare in giro per il mondo, come se fosse un McDonald.
Come è stato al principio e per esperimento in Jugoslavia (a partire dalla metà degli anni ’90) e poi, a partire dal 2002 e su più vasta scala, nel medioriente e nel mediterraneo. Con i disastri che vediamo.
10. Tutto questo si è configurato, più ancora che come un sistema giuridico, come una ideologia. E più ancora che come una ideologia – si ripete – come una nuova, se pure pagana, religione.
E, come le altre, la nuova religione della globalizzazione ha avuto ed ha i suoi templi e le sue tavole, i suoi profeti ed i suoi sacerdoti, i suoi templari, i suoi adepti, i suoi sciamani, i suoi guaritori, i suoi rituali sacrificali.
11. Il problema è che oggi è una religione che sta cominciando a perdere fedeli: proprio ciò che si vede nei nuovi cicli politici: dalla Brexit alle elezioni USA, al referendum in Italia. Cicli che, più o meno tutti, sono infatti mossi dalla fine dell’incantesimo, dall’emersione del lato oscuro, del “dark side” della globalizzazione.
E ciò soprattutto per effetto di una crisi che, non compresa dalle “élite” globali nella sua dinamica causale, è stata prima crisi finanziaria, poi economica, poi sociale ed oggi è infine politica. È così che nel tempo e nel mondo presente:
– da un lato con la globalizzazione e con la crisi crescono i bisogni e le paure dei popoli;
– dall’ altro lato e per contro decrescono le forze degli Stati, sempre più piccoli e deboli rispetto a fenomeni che si sviluppano su scala globale.
Ancora, dentro una dialettica drammatica ed asimmetrica per cui:
– da un lato emergono nei popoli la paura e l’angoscia, davanti a ciò che è esterno e nuovo, scorrendo dalle migrazioni alle macchine ruba-lavoro che appaiono come funghi del mondo digitale;
– dall’ altro lato e per contro emerge la nostalgia del passato, in forme che per certi versi ricordano, per reazione alle novità rivoluzionarie, le origini del romanticismo, come è stato nel primo ‘800, basato sulla ricerca e sul ritorno alle più umorali ed arcaiche riserve della memoria. Proprio il romanticismo, destinato oggi a reinserirsi nel circuito politico restituendogli il suo perso valore simbolico!
E’ così che la politica sta tornando nel suo territorio naturale e nei confini della storia.
12. Gli Stati Uniti d’America hanno trovato la loro strada con lo smantellamento del “politically correct” e del “responsability to protect” ed appunto con l’emersione del nuovo “mercantilismo“.
In realtà, finora, gli avversari hanno preso Trump alla lettera, ma non sul serio.
Trump può invece fare e sta facendo sul serio, anche se non alla lettera!
È in Europa che è diverso e peggio.
Non c’è più un modello ideologico “prêt a porter“, un modello che si possa continuamente calare dall’alto sui popoli, come è stato finora il modello dell'”Unione europea”
E per contro non basta, è anzi suicida, demonizzare il “populismo“, come se questo fosse versione attuale ed ancora più volgare del “lumpen proletariat“; demonizzare i popoli che rifiutano e che si ribellano, votando “contro“.
In ogni caso, è ridicolo illudersi che si tratti solo della “campagna” che va educata da parte della “città“, intesa questa come l’avanguardia civilizzata ed evoluta del mondo nuovo. Semmai, c’è il rischio opposto: che sia la “campagna” a circondare la “città” (come diceva quel tale)!
13. Oggi quello che serve in Europa è qualcosa in più, perché la storia si è rimessa in movimento ed il mondo è di nuovo “furioso”. E l’Europa, che per millenni è stata la signora della storia, rischia oggi di esserne la vittima.
Nella classica sequenza politica “pensiero-azione” viene prima il pensiero e solo su questa base ci può essere l’azione. E oggi, in Europa, nel campo del pensiero serve più ragione che presunzione.
Ciò che le cosiddette “élite” stentano invece ad intendere, essendo quelli che le compongono sempre più simili ai nobili che nel ‘700 costituivano l'”Ancien Regime“.
L’invito che qui si vuole fare è dunque di essere, se non populisti o proletari, almeno un po’ meno aristocratici, ovvero un po’ più democratici! Anche perché, come dice il nome stesso, la democrazia ha qualcosa a che vedere con il popolo. Così che non si può né conservare né cambiare l’Europa senza i popoli e senza il loro consenso.
14. Ciò premesso, se c’è una così ormai chiara è che il vecchio modello dell'”Unione europea” è condannato.
L’ipotesi del ritorno a Stati-nazione del tutto isolati è per suo conto arcaica e pericolosa, perché così isolati sarebbero facile oggetto di aggressione da parte delle forze finanziarie globali (come è stato nell’autunno del 2011 con la caduta del Governo italiano, operata con una torsione della struttura democratica dell’Italia).
Il modello Confederazione
In alternativa c’è solo il modello della “Confederazione“: unirsi sopra sull’essenziale (la difesa, la sicurezza), lasciando per sussidiarietà tutto il resto alle sovranità popolari nazionali.
Fate una prova: se andate in un bar – ancora una delle più significative tra le constituencies democratiche contemporanee -e parlate di “più Europa”, vi sentirete circondati da non eccessiva simpatia. Nella migliore delle ipotesi se invece parlate di questo schema, o di schemi di questo tipo, vi capiscono e, se vi capiscono, è già un passo avanti.
Forse così, con la scintilla della coscienza morale che accende la luce, alzando le bandiere dell’onore e dell’orgoglio sovrano, si può vedere che la “talpa” non è poi così brutta.