Altin (Rimi Beqiri), aspirante scrittore albanese sbarcato in Italia a bordo di una nave negli anni ’90, lavora in una macelleria quando viene selezionato per un provino di un reality per scrittori e vede finalmente la possibilità di avere successo con il suo libro Il viaggio di Ismail. Da questo momento, cominciano le sue disavventure, in una Roma spesso dai toni spettrali, che lo porteranno a conoscere la vendetta, la solitudine, la povertà, fino al lato oscuro della ricchezza e del successo. Altin in città affronta l’inquietante rapporto tra arte e Potere, tra energie oscure e aspirazioni superiori, in cui si annidano l’avidità e la corruzione, ma pure la giusta ambizione per una crescita personale.
Chi ha avuto la pazienza di leggerci in questi anni sa bene che non disdegniamo di dare talvolta attenzione al cinema italiano indipendente. Tuttavia, anche in questo ambito, cerchiamo sempre di confrontarci con produzione non “artistiche”, bensì pensate per il pubblico e non per quei circoli festivalieri che evitiamo metodicamente come la peste. Un nostro sodale ci ha però indicato il film di del Greco. In virtù di un consolidato rapporto di stima, abbiamo deciso di visionare questa opera.
Il giudizio complessivo è alla fine abbastanza positivo. Altin in città, malgrado i chiari limiti formali imposti dal budget, dimostra di possedere una sua piccola “anima”. Interessante è sicuramente quella costante ironia noir, talvolta persino un po’ macabra, che connota tutta la pellicola. Il tema dello scrittore che vuole pubblicare la propria storia, nel senso non di un romanzo qualsiasi, ma uno che racconti le sue vicende personali è stato ampiamente esplorato. Un aspetto di qualche originalità è invece rappresentato dal fatto che questo aspirante autore sia un immigrato, di quelli “integrati”, a partire dalla lingua. Ecco, quindi, che il suo “sogno” si collega a quello fasullo di quegli immigrati che pensano che in Europa vi sia una specie di Eldorado; se poi questi sono, come nel caso di Altin, albanesi, beh, allora si rasenta quasi il paradosso. Quanti giovani di Tirana si sono abbeverati alla TV italiana, pensando che il Belpaese fosse pieno di quelle donnine seminude e occasioni di fama e soldi che popolano le nostre emittenti dall’avvento del berlusconismo.
Delle atmosfere costantemente attenuate, quasi “sedate”, trasmettono la sensazione come se da un momento all’altro la storia dovesse tramutarsi in un horror. Questo genere filmico gioca molto sul creare una forte instabilità nella psiche dello spettatore e del Greco sembra trovarsi abbastanza a suo agio nel gestire tali meccanismi narrativi. Egli pare anche in possesso di un certo gusto per un assurdo tangente al fantastico che vede oggi in Paolo Sorrentino il suo massimo esponente mondiale nella Settima Arte. Alla stregua, seppur lontano in modo siderale per grandezza e talento, dell’artista napoletano, del Greco utilizza la “forma per narrare”. Mai abbiamo fatto mistero di gradire molto film di questo tipo, lontani dalla “malattia del realismo” che ha arrecato gran male alla cinematografia e letteratura italiane. Per tale motivo, ci permettiamo di dare un piccolo consiglio al regista, perché non confrontarsi per l’appunto col genere, precipuamente l’horror? Qualcosa ci dice che potrebbe cavarsela più che discretamente.