La favola Leicester la conosciamo tutti. E abbiamo imparato a conoscere abbastanza bene anche la storia di Jamie Vardy, guida del sogno blu, simbolo del calcio di strada, dal basso, slegato da calcoli economici, così dolcemente arcaico e inglese. E nella sua autobiografia (“Dal nulla. La mia storia”), chiesta a gran voce dal mondo intero, Vardy ripercorre la sua vita, dalla periferia di Sheffield fino alla vetta. E si sofferma su un particolare, oggi diffuso in un’anteprima del libro: il suo incontro, negli anni allo Sheffield Wednesday, con Paolo Di Canio, suo idolo da sempre. Ma ciò non ci sorprende affatto: il calcio vero chiama naturalmente il calcio vero, è un fuoco che non si spegnerà mai, acceso contro la modernità.
“I primi anni 90 erano un periodo fantastico per i tifosi del Wednesday, perché stavano vivendo un’età dell’oro in cui il club era riuscito a imporsi come una delle squadre più forti del calcio inglese: nel 1991 aveva battuto il Manchester United e vinto la Coppa di Lega, la stagione successiva aveva chiuso il campionato in terza posizione e nel 1993, quando avevo 6 anni, aveva giocato a Wembley quattro volte nel giro di sette settimane. La prima di quelle partite era la cosa di cui tutti parlavano nella zona, perché si trattava di una semifinale di FA Cup contro lo Sheffield United, il nostro peggior nemico; il Wednesday vinse 2-1 ai supplementari, e senza dubbio il momento migliore fu il gol di Chris Waddle… Durante le nostre partitelle fuori dallo stadio la palla finiva spesso oltre il muro perimetrale, e così per riprenderla, invece di chiedere a qualcuno della sicurezza, lo scavalcavamo; in quell’occasione decidemmo di fare una bravata, non solo scavalcammo il muro, ma ci dirigemmo verso il campo di gioco. Ci stavamo divertendo un sacco, passandoci la palla di fronte a 40 mila seggiolini vuoti, impersonando a turno Hirst e Paolo Di Canio, quando improvvisamente una guardia di sicurezza iniziò a urlarci contro e fummo costretti a svignarcela. Di Canio firmò per il Wednesday nel 1997, un anno dopo l’arrivo in squadra di Benito Carbone, e quella strana coppia di italiani mi regalò una delle migliori esperienze della mia infanzia. Un sabato mattina dovevamo allenarci a Middlewood e, dato che non erano previste partite, anche i giocatori della prima squadra erano lì per un allenamento leggero; io stavo facendo qualche passaggio con un ragazzo della mia squadra, quando all’improvviso si avvicinarono Carbone e Di Canio e ci sfidarono a calciotennis. All’epoca erano probabilmente i due migliori giocatori del Wednesday – erano stati gli acquisti più costosi del club, quando avevano firmato -, per cui che ci chiedessero di giocare con loro era davvero un sogno, che divenne un incubo una volta iniziata la sfida: ci distrussero. Da una parte della rete c’erano due ragazzi che si preoccupavano solo di mandare in qualche modo la palla dall’altra parte, non importava come, e dall’altra c’erano Carbone e Di Canio che davano spettacolo con passaggi e rovesciate. “Wow” era tutto quello che riuscivo a pensare. Adoravo Di Canio: che giocatore, quanto talento, quanta passione. Se però uno parla di Di Canio e dello Sheffield Wednesday tutti pensano all’episodio del settembre 1998, quando in una partita contro l’Arsenal diede uno spintone all’arbitro Paul Alcock che lo aveva espulso; a ripensarci le due cose che mi fanno sorridere sono l’atteggiamento teatrale dell’arbitro – che ci mette praticamente mezzo minuto a cadere a terra – e la scena comica di Nigel Winterburn, che prima si avvicina per affrontare Di Canio e poi si spaventa quando questi accenna a rifilargli un cazzotto”