Lunedì 10 ottobre si è svolta, presso il Cinema Moderno a Roma, l’anteprima dei primi due episodi della epocale mini-serie di Paolo Sorrentino: The Young Pope
Dieci puntate che, non nutriamo molti dubbi a riguardo, segneranno la storia delle produzioni televisive e non solo italiane. 40 milioni di euro spesi benissimo, ma è la mano del regista, anzi dell’Autore, che conta in questo caso. Sorrentino, come sempre, esprime la sua arte in modo sfacciato e, dunque, provoca. Stavolta ci propone una storia che crediamo susciterà un dibattito ben più acceso di quello alimentatosi intorno a La grande bellezza (2013).
Un Papa ultra-conservatore, un anti-Bergoglio che viene dall’America! Questa potrebbe essere una delle numerose letture della serie. Già, poiché ce ne sono diverse, come spesso accade quando a dirigere è questo talentuoso cineasta, il quale fa del virtuosismo una “arma” per affrontare indirettamente tematiche politiche e sociali. Lenny Belardo, col nome di Pio XIII, vuole portare avanti una rivoluzione nel mondo della Chiesa. Badiamo bene, non una di stampo pauperista sino alla irritazione come quella di Bergoglio, bensì una specie di Rivoluzione Conservatrice in chiave cattolica, aristocratica e anti-liberale; insomma, magari ad avercelo un Papa siffatto, che schifa la gente comune, perché non si impegna in nulla e parla dei turisti con sdegno, visto che questi: “sono di passaggio”. Un Leader religioso a tutto tondo, che ricerca la potenza del Cattolicesimo. Senza pietà per nessuno, Pio XIII intende annientare qualsiasi forma di nichilismo buonista all’interno del Vaticano. Un personaggio amorale? Al contrario, egli è forse privo di Fede, ma pieno di valori, dotato inoltre di un umorismo devastante, segno di quella vera intelligenza che fa difetto all’attuale Pontefice. Questo immaginario Papa che viene da Oltreoceano sembra quasi una espressione della cosiddetta New Right americana. Sia chiaro, non parliamo del dozzinale Donald Trump, ma di quella corrente politica e intellettuale che si abbevera con gli scritti di Julius Evola. Alla stregua del grande filosofo italiano, Belardo mira a ristabilire la Tradizione, ovviamente non esoterico-pagana, come nel caso di Evola, bensì Cattolica. Sembra di assistere alla reincarnazione di Giulio II, detto “il Terribile”.
Per chi, come noi, di Bergoglio e del suo biascicare in uno stentato italiano non ne può più, l’avvento di un Papa come questo, dall’intelletto sopraffino e con la idea che il Cattolicesimo sia prima di ogni altra cosa qualità, la storia di Sorrentino è acqua nel deserto. E l’aspetto formale? Chi conosce questo regista sa bene come in lui sia immancabilmente preponderante, e su questa serie TV si potrebbe scrivere un libro, per quanto promette bene. Senza dilungarci troppo, presentiamo qui di seguito alcune riflessioni filmiche su The Young Pope.
Una lunga sequenza iniziale senza nemmeno un dialogo, così inizia il primo episodio. Le immagini e le atmosfere sono sovente sufficienti in un autore della levatura artistica di Sorrentino. Eppure, in questa sua opera si parla moltissimo. I dialoghi si alternano alla ricerca quasi ossessiva di una “immagine pittorica”, che è la caratteristica principale del regista. Jude Law si conferma puntualmente un sapiente interprete del ruolo che gli viene affidato; gli bastano pochi minuti per affascinare lo spettatore. Una nota bizzarra che riguarda il suo personaggio è legata al linguaggio. L’attore si è sempre distinto per il suo bellissimo inglese britannico, e ascoltarlo parlare in americano lascia davvero spiazzati. Anche qui però, non ci vuole molto per abituarsi, tanto è incisivo l’utilizzo da parte di Law della unica forma più o meno decente di accento americano: quel General American che negli anni ’50 alla radio e TV statunitensi si cercò di imporre quale “forma adatta” e colta di parlare, scimmiottando l’assai più nobile britannico Received Pronunciation (RP).
Il regista napoletano non manca mai di mostrare la bellezza di Roma, persino nei momenti in cui ne stigmatizza la decadenza morale, una lezione che da La grande bellezza in poi ha reso Sorrentino amato o odiato. Noi lo riteniamo il migliore in circolazione, e non corrisponde affatto a verità il crederlo antipatico. Chi lo fa probabilmente non lo ha mai sentito parlare o, peggio ancora, è vittima di quel pregiudizio gauchiste, che lo fa considerare un autore arrogante e pretenzioso. Sorrentino è un uomo dal talento puro e questo, in una Nazione fatta di caste e conventicole come la nostra, crea inevitabilmente tanta insanabile invidia verso chi riesce a diventare importante senza prostituirsi politicamente e/o intellettualmente. A tal proposito, possiamo citare Silvio Orlando, che il regista ha spinto a livelli di recitazione mai visti prima (lo stesso dicasi per Diane Keaton), al momento del confronto con i critici in sala. L’attore ha ricordato quella certa mentalità – da decenni causa di enormi mali nella cultura italiana, nata e sviluppatasi nell’ambito della sinistra dal ’68 in poi – per la quale la ricerca della Bellezza fine a se stessa viene giudicata “volgare”. Bene, è forse questa la colpa di Paolo Sorrentino, l’estetica? Non diciamo eresie! Egli utilizza l’immagine per veicolare un messaggio, non essendo mai questa, come erroneamente pensa Orlando, autoreferenziale. Dietro a essa si cela un concetto, potente e frutto di un ragionamento ben elaborato; una operazione simile a quella che faceva quel genio cinematografico che fu Elio Petri.
Possiamo solo terminare, dicendo che se Sorrentino fosse stato francese, la sicumera e megalomania (è un francesista chi scrive, dunque sappiamo quello che diciamo) transalpine gli avrebbero già fatto dedicare un centro studi sul cinema; noi, per converso, lo mettiamo ogni volta in discussione. Quanto è vero che il peggior nemico dell’Italia è proprio quella tipologia di italiano americanizzato modellatasi dopo la ultima guerra e che, purtroppo, ancora esiste. Un individuo che non rispetta niente e nessuno, fuorché se stesso e i suoi piccoli interessi personali, acutamente definito da Dino Risi come un “mostro”.