L’umorismo nero o humor noir, di filato dall’ideatore del termine nella figura di André Breton, confina con la satira, pur custodendo un approccio meno violento. Oltre la finalità, quasi esclusiva, della festosità, attraverso l’infrazione di alcune norme, spesso si fa latore di considerevoli riflessioni. In quello di Breton, le fondamenta si tengono su una certa inclinazione allo scetticismo e al cinismo. Il terreno edificabile figura sempre nella zona della morte. Diversa e certamente più vigorosa è la scena occupata da il “Galgenhumor”, termine tedesco che si identifica in un’affermazione oltremodo robusta: umorismo da forca. Ed è proprio all’interno di tale “allegria disperata” che si insediano gli ultimi anni di vita della leggenda del cinema: Marlene Dietrich.
Narrata mediante la penna raffinata dello scrittore e poeta francese di origini russe, Alain Bosquet, l’Angelo Azzurro, non perde i tratti del mito, ma prende a umanizzarsi nelle telefonate e nelle molteplici lettere scambiate con Bisk. Il Galgenhumor, peculiarmente tedesco, contraddistingue ogni conversazione tra i due, alla maniera di un parapioggia da aprire per l’arrivo imminente di un acquazzone. E, la tempesta incombente è quel fardello ineluttabile che porta il nome di vecchiaia. Il mito resta tale solo in una copertura che arresta il tempo nell’ultima immagine, quella definitiva dentro la quale la senescenza non è ancora giunta. Il Galgenhumor della Dietrich figura come la tana invalicabile, lo scongiuro con tanto di corna a quella prepotenza davanti alla quale alcuno è mai preparato, ancor meno un angelo epico. È lo “sputo in faccia” prussiano che stoicamente rigetta ogni forma di asservimento. Un grido di libertà come affermazione della propria individualità, anche dentro una giovinezza perduta, ma a forza trattenuta. Un umorismo da patibolo, originario del periodo berlinese, rimasto al suo fianco sino agli ultimi anni parigini. Un cunicolo, ma anche un abito elegante, per mezzo del quale si velano i difetti fatali del corpo e quelli inevitabili del temperamento.
Scherzare con e sulla morte, burlarsi di un aldilà frutto di altrui deprecabili invenzioni, fantasie della disperazione nell’ultimo bagliore di speranza. Quando l’Angelo Azzurro è soltanto Marlene, sfida la donna con la falce, per non cadere in un’afflizione tutta umana e per nulla mitologica. Nella donna, severità e tenerezza si fondono in una relazione di amore, eretta su quell’imperativo che porta direttamente al “per sempre”: non incontrarsi mai. La diva e lo scrittore vivono sotto lo stesso cielo di Parigi e in un patto tutto di deferenza e delicatezza, si sceglie tacitamente l’assenza della presenza corporea per bastarsi in eterno. L’antidoto all’immutabilità di ogni sentimento: non sfiorarsi mai.
Lo scrittore, il poeta e l’uomo figurano in Marlene come il porto sicuro dove riporsi al riparo dalle impietose luci della ribalta. Bosquet nello pseudonimo di Anatole Bisk, è il conforto, il consiglio, la ratio che la riporta verso se stessa in un’inevitabile istante di dispersione. Non all’interno della morbosità di scoperchiare se si tratti di un perdersi alcolico o senile, ma nell’eccezionalità di un affetto privo di comodo. Bisk raccoglie le confidenze, la rabbia, le frustrazioni, si fa contenitore vuoto da riempire in qualsiasi momento del giorno e della notte, poiché lei è Marlene: la donna nel mito.
L’attrice, la cantante, la madre che vorrebbe essere nel ruolo più arduo, si svela un’estimatrice di Rainer Maria Rilke e non indugia nel farsi lei stessa inchiostro di poesia:
“La mia innocenza non è mai vana
che fortuna
ma il fardello e il peso
che essa porta
non si vedono
i fili che si stringono
presto a mia insaputa
sarà mio destino
pagare
per l’innocenza
così tardi”
Presumibilmente le rare forme di commozione dell’attrice, fluiscono dalle numerose poesie e in quel restare nella ferma morsa dell’isolamento. Bosquet, mediante un verseggiare in conversazioni e lettere private con la paradossale peculiarità nella possibilità del rivelamento, consegna una diva intatta, laddove l’umanità non toglie nulla a quella figura così altera, quanto ambigua. Non scivola mai nel dettaglio maniacale, resta in quell’intimità, che nel distacco, non fa altro che accrescere il sentimento. Il poeta si impone un picco di discrezione che non gli nega a ogni modo, la possibilità di suggerire una condotta, nei curiosi rapporti con la figlia. Motiva la Dietrich ad andare a vivere con lei. La diva, in un tono avverso alla sottomissione o a quella che ritiene tale, risponde nel suo stile:
“Temo la solitudine, ma l’impongo a me stessa a prova della mia indipendenza”.
Anatole incede sempre più vigorosamente nel ruolo principe di guida, la prende per mano dal filo di un telefono, riportandola sempre a se stessa. Forse, per quell’abusato luogo comune che tanto ci si mostra forti e indipendenti, quanto si domanda protezione e accortezza. L’indipendenza, trascinata sino all’eccesso, si rivolta nella peggiore delle prigioni dove nessuno è più ospite gradito. Proprio in una domanda per un’intervista rilasciata a “Le Figaro”, serpeggia il tratto di un’autonomia deleteria:
“Da più di dieci anni, lei si è sottratta a ogni manifestazione pubblica. Il suo spazio vitale, non è diventato la sua prigione?”
Marlene Dietrich muore all’improvviso il 6 maggio del 1992; con lei l’attrice, la madre, la donna, ma non l’Angelo Azzurro che continua a vivere nella memoria cinematografica di molti. L’amico, lo scrittore, l’amore epistolare degli ultimi quindici anni, la voce poetica dall’altra parte del filo di una stessa città, la omaggia in un requiem tutto di Dietrich.
Requiem per Marlene Dietrich (di Alain Bosquet)
Signora, quanti volti
possiede?
Marlene, che voce hai oggi
voluto assumere per me?
Signora,
lei è stamattina
più innocente del fanciullo
che gioca sul prato.
Marlene,
tu ringiovanisci
come la luce che a mezzogiorno ritrova
la rugiada dell’aurora.
Signora, con la frusta in mano,
ha ella forse ordinato
che vengano aperte le finestre:
che le folle applaudiscano
e gli alberi si mettano attenti?
Marlene, ammansita, ubbidisci,
forse all’istinto,
all’amore, o al mistero?…