Se esiste un uomo al mondo che sappia davvero cosa voglia significare il termine impopolarità, questi è Claudio Lotito. Lo sa, oggi, persino in termini numerici e matematici: undici, dicansi undici soli soletti abbonamenti sono stati venduti ai tifosi della Lazio per la stagione 2016/17. Solo undici persone in tutta Roma, in tutto l’universo mondo della lazialità, danno fiducia a squadra, società e allenatore.
La Curva Nord ha fatto sapere che non farà sconti a nessuno. Disseppellita l’ascia di guerra – ancora una volta – il tifo biancoceleste è pronto alla battaglia. Dopo dodici anni di convivenza (matrimonio in questo caso è parola fin troppo grossa) sanno bene dove è più sensibile, Lotito. Nel portafogli, chiaro. Questo è il problema, la concezione del calcio come azienda, dei tifosi come clienti che se hanno una lamentela, invece di fischiare magari inviino una mail al customer service che se è sfiziosa la mettiamo sul sito e ci facciamo due clic. Al fanciullino non ci ha creduto nessuno, manco Bielsa. Succede se chiedi al tifoso di ragionare e di zittire il cuore.
Tante volte, Lotito, ha citato la romanità. Ha parlato in latino. Ha voluto apparire come il severo e parco Catone che si contrappone alle effemminate mollezze, ai baccanali sfarzosi e traditori degli aristocratici che sprecano patrimoni a comprarsi il favore della plebe. Un restauratore della moralità contro gli eccessi di (quel) presente (del 2004) che avevano lasciato la Lazio sul lastrico. Il trionfo del mos maiorum ai ludi gladiatorii del terzo millennio.
Solo che adesso, altro che Catone (con il sogno inconfessabile di incoronarsi Augusto col console Tavecchio). Viene percepito come un tremendo Arpagone con la fregola del pallone: dalla Roma della repubblica matura, Lotito scivola verso la Roma delle origini, quella arcaica, di Plauto e di Ennio. Lotirchio, lo chiamano i detrattori e lo descrivono come e più del vecchio Euclione, il protagonista dell’Aulularia che ama più la pentola dell’oro che la sua stessa figlia. Forse esagerano, in fondo pure Euclione – preso dai suoi personalissimi ragionamenti – fraintese la confessione di Liconide. Fissato col rigore dei bilanci, per lui viene prima il “valore” (che tempi, signora mia!) della sana gestione aziendale e poi si vede il resto. E non importa (o forse sì?) se i tifosi non lo amano punto. E sottoscrivono “solo” undici abbonamenti.
L’indoeuropeista francese Georges Dumézil lesse nelle origini della Roma arcaica lo schema tripartito. Romolo, che su si sè assommava la funzione militare e quella religiosa, si scontrò con il terrifico Tito Tazio, capo sabino dotato di immense ricchezze che voleva tenere solo per sè rappresentando quella che lo studioso francese identificò come la terza funzione, quella dell’economia. Per la romanità, Tito Tazio non fu certo una figura nobile, nè eroica nè esemplare. E lo si ricorda solo per l’iper-allitterazione del poeta Ennio, “O Tite tute Tati tibi tanta turanne tulisti”. “O Tito Tazio, tiranno, quante sventure attirasti!”.